
Modelli di famiglia: la famiglia sacrificante
Nell’articolo di oggi parleremo della famiglia sacrificante, uno dei modelli di famiglia largamente diffuso.
La famiglia è un cardine fondamentale della nostra società ed è spesso oggetto di attenzioni da parte dei media e sui social, dal momento che investe gran parte della vita di ogni individuo. Esistono dei modelli di famiglia che altro non sono che letture dei copioni più ricorrenti nello stile di educazione genitoriale. Sebbene ogni genitore possa portare diversi modi di interagire con i figli, col tempo alcuni comportamenti, dinamiche e giochi comunicativi finiscono per cristallizzarsi e caratterizzare il tipo di interazione tra i componenti della famiglia.
Molte di queste modalità di interazione possono risultare in alcune occasioni congrue con l’idea che si ha di famiglia ma l’irrigidirsi di certi meccanismi può risultare disfunzionale nel tempo e comportare delle conseguenze per la crescita dei figli.
In questo articolo abbiamo già parlato di uno stile genitoriale iperprotettivo e di come questo possa comportare dei rischi nello sviluppo psicologico dei figli.
Nelle famiglie sacrificanti, il valore del sacrificio assume un significato importante per tutti i membri che ne fanno parte, sebbene abbia un risvolto diverso per i genitori e per i figli. Di solito infatti si tratta di uno stile orientato al sacrificio da parte dei genitori, i quali abdicano ai loro desideri in favore del benessere dei figli. Vediamo in che modo.
Tratti distintivi dei genitori sacrificanti
Il genitore sacrificante sposa un modello di vita basato sul sacrificio per far sì che i figli abbiano soddisfazioni e un futuro positivo. A differenza del modello iperprotettivo però, in queste famiglie i genitori manifestano continuamente la fatica e le rinunce che stanno facendo aspettandosi di venire un giorno ricompensati dai successi che i figli otterranno grazie ai sacrifici fatti da loro.
Spesso si innesca in tal senso una specie di ricatto emotivo, dove il genitore assume un atteggiamento vittimistico quando il figlio non riconosce il sacrificio da lui fatto e il figlio finisce per passare come un egoista. L’ambivalenza del messaggio “lo faccio per te, quindi impegnati” insinua un debito e l’esigenza di doversi dimostrare all’altezza dell’aiuto (spesso non richiesto).
Obblighi e rinunce sono quindi comportamenti visti in modo positivo dai genitori, per i quali l’imperativo è dare, dare, dare per il benessere della famiglia. Questo messaggio di “dovere” permea l’intero nucleo familiare, dove il piacere e le soddisfazioni sono invece messi da parte e visti come una trasgressione o vissuti con senso di colpa.
Può accadere che nella coppia di genitori solo uno abbia questo atteggiamento: in questo caso anche il partner può essere oggetto di questo altruismo non richiesto e la felicità degli altri membri riveste un’importanza esagerata per il genitore sacrificante, che diventa la colonna portante su cui regge l’intera famiglia (molto spesso si tratta della mamma).
A prescindere da chi veste il ruolo sacrificante, la narrazione che risulta in queste famiglie è che l’amore passa attraverso il sacrificio: solo dando sarò accettato dagli altri e in virtù del sacrificio che faccio otterrò l’affetto dei familiari.
I rischi di uno stile sacrificante
Come accennavamo, la relazione di questi genitori con i figli è basata su un altruismo insano che genera malcontenti da entrambe le parti. Da una parte il genitore non vede riconosciute le sue fatiche e privazioni e di conseguenza si arrabbia e accusa i figli di ingratitudine. Oppure usa lunghi silenzi come forma di comunicazione passivo-aggressiva, stabilendo a conti fatti una posizione di superiorità facendo sentire gli altri in debito o in colpa.
Dall’altra parte i figli vivono in un clima di costante tensione. Piuttosto che apprezzare gli sforzi e i sacrifici dei genitori, finiscono per rifiutare o addirittura accusare i genitori del loro scontento. Non di rado possono nascere veri e propri episodi di violenza da parte dei figli nei confronti dei genitori.
La mancanza di piacere e divertimento contribuisce inoltre a mantenere un clima non proprio allegro e spesso i figli esortano i genitori a uscire di più, a viaggiare, a divertirsi ma questo è inammissibile o rimandato a un futuro lontano quando i figli avranno ottenuto quel benessere per il quale si lavora sodo.
Può accadere anche che il figlio accetti il modello sacrificante e lo faccia proprio. In questo caso troviamo figli che si impegnano molto nello studio o nella professione, che accantonano i divertimenti e le uscite con gli amici per aiutare i genitori o fare qualcosa di utile per la famiglia, adottando di fatto il modello che gli viene trasmesso.
I figli di queste famiglie possono sviluppare diverse problematiche psicologiche, sia di tipo sociale. Possono sviluppare difficoltà di inserimento e conseguente ritiro sociale, sia condotte violente e devianti, sia disturbi alimentari, depressione ed episodi psicotici (Nardone et al. 2012).
Come uscire dal modello sacrificante
Come spesso accade, sono proprio le azioni fatte con buone intenzioni che, reiterate nel tempo, mantengono il problema. Così anche per questi genitori, è importante capire che dare questo aiuto incondizionato attraverso il sacrificio non favorisce la realizzazione personale dei figli. Al contrario, può inibire completamente le loro capacità. “Lo faccio io per te” è la modalità di aiuto che molto spesso genera e alimenta dubbi sulle proprie abilità e disconferma le potenzialità nell’altro. Sentendosi deresponsabilizzato, il bambino può chiedere continue conferme o scoraggiarsi.
Bloccando al contrario questo atteggiamento sacrificante si dà al figlio la possibilità di realizzarsi e responsabilizzarsi, perché sollevato dal peso delle rinunce e delle fatiche che i genitori gli hanno addossato.
E’ fondamentale modificare in tal senso anche lo stile comunicativo e i messaggi che si trasmettono ai figli e disinnescare quel gioco di debiti e ricatti che si è instaurato nel tempo.
Se pensi di non riuscire a gestire da solo questo aspetto dell’essere genitori puoi rivolgerti a un professionista del One Session Center (clicca qui), con il quale trovare nuove strategie per uscire dai problemi che vivi in famiglia.
Riferimenti bibliografici
Bartoletti, A. (2013). Lo studente strategico: come risolvere rapidamente i problemi di studio. Ponte alle Grazie.
Nardone, G., Giannotti, E., & Rocchi, R. (2012). Modelli di famiglia. Ponte alle Grazie.
Thomas, G. (1994). Genitori efficaci. Ed. La Meridiana.

Psicologa clinica, mi occupo in particolare di età evolutiva e sostegno alla genitorialità.

Come trovare il lavoro dei sogni
Esiste il lavoro dei sogni? Come fare a trovarlo?
I sogni sono degli obiettivi che hanno bisogno di essere concretizzati…
altrimenti rimangono sogni!
Alla ricerca del lavoro dei sogni
La ricerca di un lavoro, o meglio la ricerca del lavoro che risponde alle nostre aspirazioni, alle nostre passioni, è un obiettivo senza dubbio sfidante. Il suo raggiungimento necessita di un forte mix di motivazione, forza di volontà, autodeterminazione e, soprattutto, la capacità di gestire in maniera efficace un piano d’azione appositamente definito.
La strada per trovare il lavoro dei sogni è infatti un percorso lungo il quale possono incontrarsi ostacoli di vario genere e che potrebbero, in determinati momenti, far sprofondare la persona in uno stato di sconforto e di scarsa fiducia nelle proprie capacità di riuscita.
La ricerca del lavoro desiderato non è un percorso privo di ostacoli….
Pensiamo ai momenti inevitabili di stallo, a chiamate per colloqui che non arrivano o a colloqui che vanno in un modo diverso da quello che ci eravamo aspettati.
Tutto questo potrebbe facilmente portare la persona, che già sta vivendo un momento di vulnerabilità, a pensare che non ne valga la pena, che tanto le cose non cambieranno nonostante tutti gli sforzi possibili.
Il lavoro, oltre a garantirci una sicurezza economica, è anche e soprattutto una fonte di benessere e di equilibrio psicologico e sociale.
La sua mancanza, al contrario, incide profondamente sulla nostra autostima e sul senso di efficacia personale. Non riuscire a provvedere a sé stessi, o peggio ancora alla propria famiglia, possono alimentare l’insorgere di un senso di profonda inadeguatezza. Questo può alimentare credenze circa la propria incapacità, il fatto di essere dei buoni a nulla, degli/delle sfortunat/e o peggio ancora che non ci meritiamo nulla di buono.
Il tempo: una risorsa preziosa per trovare il proprio lavoro desiderato
Un aspetto che spesso si tende a sottovalutare è l’utilizzo della risorsa tempo. In realtà, la gestione efficace e produttiva della risorsa tempo diventa uno dei più importanti elementi di riuscita del proprio progetto professionale di ricerca del lavoro desiderato.
Come riuscire allora a rendere produttivo il proprio progetto professionale di ricerca del lavoro desiderato? Di seguito propongo alcune tips e approfondimenti utili per non lasciare nulla al caso, che ti aiuteranno a gestire efficacemente il tempo dedicato alla ricerca del lavoro desiderato.
Alcune tips utili per una ricerca efficiente ed efficace
- Chiarisci i tuoi valori professionali, il perché vuoi fare proprio quel lavoro, perché è importante per te.
- Definisci un obiettivo “ben formato”. Un obiettivo ben formato dovrebbe innanzitutto essere espresso in positivo (Voglio trovare il lavoro che desidero vs Non voglio più essere disoccupato), dovrebbe essere concreto (che lavoro voglio cercare? Quali caratteristiche deve avere?), essere realistico (in relazione alle mie possibilità e alle possibilità dell’ambiente di riferimento), essere ecologico (i costi non devono superare i benefici) ed infine, essere misurabile (ovvero è fondamentale stabilire una timeline di azione).
- Fai un’analisi delle tue competenze. Cosa hai fatto fino ad oggi, quali sono i tuoi punti di forza a livello di skills e quali sono invece le capacità che potresti migliorare per rendere più accattivante e più competitiva la tua presentazione.
- Stabilisci delle priorità. Quali sono per te, in questo momento, gli aspetti più importanti, quelli che per te sono un punto fermo nella ricerca di un lavoro (la retribuzione, l’area geografica, l’inquadramento professionale etc)?
- Lavora sul tuo atteggiamento che deve essere positivo, proattivo e orientato al risultato.
- Costruisci una strategia di comunicazione efficace e, in generale, allinea tutti gli strumenti di comunicazione (profili social, LinkedIn, Facebook…..lettera di presentazione)che devono essere coerenti, gradevoli, focalizzati e funzionali all’obiettivo.
- Definisci un piano d’azione e mettilo subito in pratica. La metodicità è un fattore molto importante che ha una forte influenza in percorsi come quello della ricerca del lavoro. Crea dei micro-obiettivi e cerca di perseguirli ogni giorno (questo ti aiuterà anche ad evitare la tendenza a procrastinare).
- Non buttarti a caso, la tua comunicazione deve essere sempre coerente e strategica rispetto al tuo obiettivo. Fai piuttosto un’analisi di mercato e seleziona i target che potrebbero essere potenzialmente in linea con il tuo profilo professionale.
- Lavora anche sul tuo network personale: vecchi amici e conoscenze (reali!) che possono contribuire con un utile apporto e con utili informazioni per la causa.
- Lavora sui momenti di tristezza e di scoramento: sono naturali ed inevitabili ma potrebbero essere la vera chiave del tuo cambiamento.
- Sii curioso/a di sperimentarti anche in qualcosa di alternativo/diverso dalle tue competenze: potresti riscoprirti appassionato/a e particolarmente bravo/a in qualcosa che mai avresti immaginato.
Hai bisogno di un aiuto in più?
In caso di necessità, puoi far riferimento anche ad un professionista del settore dell’orientamento professionale. Potrà supportarti con gli strumenti giusti, nella definizione del tuo obiettivo professionale e nella preparazione di un piano d’azione.
Bibliografia di riferimento
Tucciarelli, M. (2014), Coaching e sviluppo delle soft skills, Editrice La Scuola

Psicologa- specializzanda in psicoterapie brevi sistemico-strategiche. Grazie alle terapie brevi e alla mia formazione nell’ambito dell’orientamento professionale e dello sviluppo delle soft skills, riesco ad aiutare le persone che si rivolgono a me a superare momenti di difficoltà e disagio, sia in ambito personale che lavorativo, riattivando le risorse e abilità personali e aiutandole a realizzare i propri obiettivi e riconquistare una percezione generale di benessere nel più breve tempo possibile

Prendere una decisione con la Terapia a Seduta Singola
“Possano le tue scelte riflettere le tue speranze, non le tue paure”
Nelson Mandela
Quanto è difficile prendere una decisione?
Prendere una decisione nella propria vita, per alcune persone potrebbe essere un’esperienza stimolante e divertente: il solo fatto di avere di fronte un ventaglio di possibilità può stimolare la nostra curiosità e renderci entusiasti. In questo caso, la scelta viene fatta a cuor leggero, senza starci a pensare troppo su.
Per altre persone invece, prendere una decisione può essere qualcosa di estremamente pesante, difficile e stressante: orientarsi in un mare di possibilità potrebbe farci affondare in un baratro di incertezza, da cui può essere difficile emergere. Questo non solo quando si ha a che fare con scelte importanti (es. cambiare lavoro, comprare o no quella casa, perdonare o meno un torto subito…) ma anche le scelte apparentemente più semplici possono diventare motivo di forte angoscia. Si può andare in crisi per decidere che cosa indossare al mattino, cosa mettere in una valigia o ancora cosa ordinare al ristorante. Così facendo, in un battibaleno quello che avrebbe potuto essere un atto di libertà, può diventare la nostra peggiore prigione.
Ti riconosci in queste parole? Se stai affrontando male le tue prese di decisioni e non sai come venirne a capo, ti do una buona notizia: con la Terapia a Seduta Singola è possibile riuscire in una sola seduta a sbloccarti e aiutarti a vederci più chiaro. Se vuoi sapere come fare, continua la lettura di questo articolo!
Che cosa fa una persona incastrata nell’indecisione?
Ci sono diverse azioni che possono essere messe in atto nel tentativo di uscire dalla confusione che si prova, con la speranza di stare meglio e prendere la decisione che tanto cerchiamo. Spesso però proprio questi comportamenti diventano delle “trappole” che finiscono per ancorarci al problema, invece che aiutarci ad uscirne. Vediamone alcune:
- Chiedere aiuto ad altre persone e far decidere loro al posto nostro.
Diciamocelo: quando si è in crisi, spesso si sente il bisogno di andare da qualcuno di fidato a chiedere un consiglio, un aiuto nel prendere la propria decisione. Se siamo fortunati e possiamo effettivamente contare sul supporto di amici o parenti, senz’altro così avremo l’impressione di aver risolto quel problema. “Ok faccio così perché me lo ha detto X”. Questo aiuto chiesto e ottenuto, tuttavia, se ci pensiamo ci dà due messaggi contraddittori: il primo, è che gli altri ci vogliono bene e sono sempre pronti ad aiutarci. Ma il secondo, è che senza di loro effettivamente non possiamo farcela. - Arrovellarsi sul problema.
Avete mai visto un vortice? Fa impressione se ci pensiamo: è come una spirale infinita che si aggroviglia su se stessa e gira, gira, gira senza fine. E più gira, più sembra farsi più profonda, forte e nera. I pensieri, talvolta, possono prendere un po’ la stessa forma: invece di andare in una direzione, si aggrovigliano in un loop senza fine.
Nel prendere una decisione può apparire un misterioso compagno: il dubbio. Si presenta subdolamente sotto forma di una prima domanda, a cui ingenuamente diamo una risposta.
Ma la risposta, genera un’altra domanda e via così. Solitamente ci incastriamo a pensare che a suon di risposte, si darà un senso alle domande e tutto sarà chiaro. Ma se invece il problema non fossero le risposte, ma le domande? Siamo sicuri che tutte le domande possano effettivamente avere delle risposte? Ed esistono risposte intelligenti a domande stupide? (ps. lo vedi il vortice?) - Procrastinare. Quando proprio non riusciamo a prendere una decisione, un altro modo per provare ad uscirne è quello di rimandare la presa di decisione stessa: “Non lo so, ci pensiamo domani.” “Poi vediamo” “Oggi no, ma prima o poi lo faccio”.
Ti è mai capitato di reagire così di fronte ad una decisione da dover prendere? Anche qui, questo comportamento ci aiuta a sentirci meglio nell’immediato e abbassa la tensione interna, ma è destinato a durare poco: rimandare una presa di decisione non farà altro che ingigantirla sempre di più e il rischio è quello di restare bloccati senza avere il coraggio di affrontarla.
Che cosa possiamo fare di diverso, invece, per prendere una decisione?
Ti propongo un esperimento curioso ma che potrebbe aiutarti ad affrontare questa difficoltà. La prossima volta che devi prendere una decisione, scegli di affidarti ad una monetina.
Prendi una moneta tra le mani e osservala attentamente: scegli il significato da dare a ciascuno dei suoi lati (ad esempio: lato A: andare al mare; lato B: andare in montagna). Una volta fatto, mettila nel palmo della mano, chiudi le dita e con un gesto deciso lanciala in aria: guardala quando raggiunge il punto più alto e in quel momento pensa a cosa vorresti che uscisse. Raccogli poi la monetina e guarda da quale lato è caduta.
Potrai sorprenderti nello scoprire che:
- scegliendo i significati dei lati della monetina e affidando al caso la tua scelta, potrai sentire una maggiore chiarezza dentro di te su quello che realmente vuoi di più. Magari, sceglierai di non lanciare quella monetina, ma di essere finalmente tu a decidere.
- al momento del lancio, potresti sentire forte e chiara la speranza che esca proprio quello che desideri di più. Ascoltando le tue emozioni, capirai subito qual è la scelta davvero giusta per te.
- non proverai nulla di tutto questo, ma avrai comunque preso la decisione di affidare al caso la risoluzione del tuo dubbio. E così facendo, finalmente avrai una direzione da seguire.
Prova e fammi sapere nei commenti se questo esperimento ti è stato utile.
Nota bene: puoi provare a sperimentare questo metodo su scelte semplici di vita quotidiana; se ti trovi invece alle prese con una decisione davvero difficile per te e non riesci ad uscirne, puoi sempre chiedere una consulenza agli Psicologi di One session.it: puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti bibliografici
Jaffé, M. E., Reutner, L., & Greifeneder, R. (2019). Catalyzing decisions: How a coin flip strengthens affective reactions. PloS one, 14(8), e0220736. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0220736
Nardone, G., & De Santis, G. (2011). Cogito ergo soffro: Quando pensare troppo fa male. Ponte alle Grazie.

Sono una Psicologa iscritta all’Albo A degli Psicologi del Lazio e all’Istituto ICNOS: Scuola di Psicoterapie Brevi Sistemico-Strategiche.
Nel mio lavoro integro le mie competenze multidisciplinari per offrire ai miei clienti soluzioni personalizzate ed aiutarli a raggiungere i propri obiettivi in tempi brevi. Utilizzo la TSS per ottenere il massimo da ogni singolo incontro.

Smettere di procrastinare: i primi passi
Come smettere di procrastinare? In questo articolo scoprirai le principali paure che stanno alla base della procrastinazione, ma soprattutto troverai alcuni suggerimenti utili per iniziare a smettere!
“Mai rimandare a domani ciò che puoi fare benissimo dopodomani.”
“Lo faccio domani, ora mi rilasso un momento.”
“Devo prima pianificare nel dettaglio e poi lo farò.”
“È meglio farlo quando mi sentirò ispirato o dell’umore giusto.”
“Quando mi sentirò sicuro allora mi butterò.”
Ognuno di noi si sarà detto almeno una volta una di queste frasi, sperimentando di fatto la procrastinazione in qualche ambito della propria vita.
Tutti quanti rimandiamo spesso azioni o cose da fare, ma quando la procrastinazione diventa un’abitudine regolare, allora nascono problemi che possono compromettere la qualità della nostra vita. Scadenze mancate, bollette non pagate, la casa in disordine, progetti lasciati a metà. In realtà la procrastinazione può toccare non solo aspetti organizzativi, ma anche sfere più importanti della nostra vita. Ad esempio succede di rimandare anche il momento di dormire, magari continuando a guardare quella serie in tv o scorrendo il cellulare sui social e questo può influenzare la qualità del sonno. Si può procrastinare anche in amore, rimandando all’infinito una decisione da prendere o una conversazione da fare.
La procrastinazione inoltre può riguardare sia iniziare una nuova attività, sia proseguirla, sia concluderla.
Procrastinare è molto facile, ma ciò non vuol dire che sia sano e funzionale.
Questo problema può avere conseguenze di cui non siamo neanche consapevoli: forte stress, ansia, pensieri di autosvalutazione, senso di colpa, insonnia, difficoltà a concentrarsi e sensazione di essere sopraffatti.
Spesso ci sembra di essere pieni di impegni e occupati ma in realtà stiamo solo facendo le cose più facili, evitando di fare quelle più faticose ma che avrebbero esiti più importanti per noi. Altre volte non troviamo la motivazione ad iniziare una nuova attività programmata, altre ancora rincorriamo la condizione ideale per poterla fare. Il procrastinatore seriale è come uno scalatore che vorrebbe raggiungere la vetta della montagna ma con uno zaino pieno di sassi.
Perchè procrastiniamo?
Se davvero capita a tutti o quasi di rimandare dei compiti, come mai lo facciamo tanto spesso? E come mai ci succede non solo per le attività più noiose ma anche per quelle a cui teniamo di più?
In qualche modo procrastinare vuol dire auto-sabotarsi, darsi la zappa sui piedi, eppure è qualcosa più forte di noi. Il più delle volte infatti siamo consapevoli delle conseguenze a cui andremo incontro rimandando le nostre azioni, ma ci illudiamo di poterle affrontare in futuro.
Le paure alla base della procrastinazione
Alla base di questo comportamento disfunzionale ci possono essere diverse cause, che non ti permettono di smettere di procrastinare.
- La paura di fallire: la paura di non riuscire a raggiungere i propri obiettivi o di sbagliare è spesso legata a un’ansia da performance o al timore di non essere all’altezza, per cui si rimanda perché si è convinti di fallire.
- La paura del successo: alcune persone hanno paura di ottenere successi nella propria vita, a volte per paura delle conseguenze del successo, altre perché ritengono di non meritarselo, per questo motivo rimandano all’infinito attività in cui potrebbero vincere.
- Il perfezionismo: il perfezionista tende a rimandare perché vuole che il risultato sia perfetto e molto spesso non si sente mai pronto finché non trova la situazione ideale per affrontare un compito. I perfezionisti inoltre tendono a voler programmare nel dettaglio ogni attività, perdendosi nella fase organizzativa e non riuscendo ad andare oltre.
- Troppo carico di impegni: quando la mole di lavoro e di compiti è eccessiva, il nostro cervello finisce per chiederci time-out e ci dirotta su compiti di svago e di distrazione. In questi casi entrano in gioco sia la gestione del tempo sia l’equilibrio tra dovere e piacere.
- Mancanza di motivazione: se il compito che stiamo facendo non ci entusiasma, è difficile riuscire a mantenere la motivazione e ogni scusa sarà buona per rimandare ciò che non ci appassiona.
Ad ogni modo, si potrebbe riassumere che alla base della procrastinazione ci sia una forma di evitamento cronica, che da un lato ha lo scopo di non farci affrontare ciò che temiamo, dall’altra innesca un giudice interno che alimenta il senso di colpa e la sfiducia verso noi stessi. In realtà, dal punto di vista dell’esito non c’è differenza su quale sia la causa della procrastinazione, perché in tutti questi casi ciò che ne risente di più è la nostra capacità di prendere decisioni e di affrontare la realtà. Questo significa che se ci illudiamo di essere in grado di fare ciò che rimandiamo, ci rendiamo inermi e privi di spirito d’iniziativa di fronte al mondo (Nardone, 2013).
Piccoli passi per smettere di procrastinare
Vediamo quindi come fare per smettere di procrastinare.
Considerando che la paura evitata viene solo alimentata, la prima cosa da fare è iniziare a temere di rimandare. In tal senso può esserci d’aiuto immaginare quotidianamente gli effetti devastanti che il rimandare costantemente può avere sulla nostra vita. Spesso infatti visualizzare lo scenario peggiore che potrebbe verificarsi se continuiamo a rimandare è il modo migliore per smuoverci da quell’immobilismo e riappropriarci della nostra capacità decisionale.
Un altro primo passo per uscire dalla procrastinazione è l’utilizzo di liste. La pianificazione strategica (Leonardi e Tinacci, 2022) può essere utile soprattutto quando ciò che rimandiamo riguarda la gestione del tempo a livello organizzativo. Compilando ogni mattina una lista di attività da fare secondo un ordine di priorità o di tempo, potremo procedere con un’attività alla volta, senza passare alla successiva se non si è terminata quella prima.
Quando invece ci sentiamo sopraffatti dalla complessità del compito, può esserci utile suddividere il nostro obiettivo in piccole azioni e cominciare da quella più semplice fino a quella che pensavamo più complicata. La tecnica dei piccoli passi può essere utile anche quando non troviamo la motivazione e facciamo fatica a iniziare un nuovo compito. Il più delle volte basta cominciare e il resto vien da sé. In questi casi inoltre, dobbiamo focalizzarci sul progetto allargato e sull’obiettivo finale, per non perderci d’animo quando non troviamo più la spinta ad andare avanti.
Quando infine la procrastinazione ci porta a cercare distrazioni e svago, chiediamoci se la nostra vita sia piena solamente di doveri e regole. A volte concedendosi spazi di piacere per sé, programmando ad esempio attività ludiche o coltivando degli hobby personali potremmo sbloccare delle energie che possiamo poi incanalare anche nel lavoro o nello studio.
Se senti il bisogno di un aiuto professionale, gli psicologi di OneSession.it ti offrono la possibilità di prenotare un primo colloquio gratuito. Per prenotare il tuo incontro, puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti biblilografici
Leonardi, F., & Tinacci, F. (2022). Manuale di psicoterapia strategica: 80 tecniche di intervento. Edizioni Centro Studi Erickson.
Nardone, G. (2013). Psicotrappole. Ponte alle Grazie.
Milanese, R. (2020). L’ingannevole paura di non essere all’altezza: Strategie per riconoscere il proprio valore. Ponte alle Grazie.

Psicologa clinica, mi occupo in particolare di età evolutiva e sostegno alla genitorialità.

Sentirsi sbagliati: tutti sembrano realizzati e io no!
Ti è mai capitato che attorno a te tutti sembrano realizzati, al punto da sentirti sbagliato/a?
“Cosa farai da grande?” è la domanda che ciascuno di noi si è sentito rivolgere almeno una volta nella vita.
A questa domanda, molto spesso, ci siamo sentiti in dovere di rispondere perché il non avere una risposta chiara e definitiva avrebbe significato avere qualcosa che non andava, perché tutti devono sapere cosa fare della propria vita, almeno da un certo momento in poi.
I percorsi formativi, d’altro canto, sono organizzati in modo tale da mettere una sorta di “data di scadenza” rispetto a quello che le persone possono diventare e realizzare arrivati ad un certo punto della propria vita. Ti vengono illustrate le possibili scelte, le possibili opzioni, e sta a quel punto a te decidere che strada prendere.
Il tempo in cui decidere cosa realizzare della propria vita non è uguale per tutti
La verità è che non tutti arrivano ad elaborare queste risposte nello stesso momento, con la spiacevole conseguenze che potremmo trovarci a fare delle scelte forzate che non “sentiamo nostre” .
Scelte che non tengono conto dei nostri valori e delle nostre vere motivazioni, e che con il tempo potrebbero farci sentire sbagliati, non al nostro posto.
Queste scelte possono portarci a viverci come costantemente indietro rispetto a chi intorno a noi prosegue dritto e spedito sul proprio percorso di realizzazione personale e professionale.
Per la propria realizzazione personale e professionale è indispensabile svolgere attività che abbiano per noi un significato
Per realizzare delle scelte che ci facciano davvero sentire bene e realizzati, è indispensabile conoscere noi stessi e le forze che guidano le nostre azioni. Non si tratta solo di capire cosa per noi è importante ma anche perché lo è, perché quell’attività ci fa stare bene e ci genera gratificazione.
Ovviamente non è scontato conoscere i propri perché o ciò che per noi ha un significato. Solo sperimentando è possibile capire se un ambito o una professione ci trasmettono quel senso, quel significato che cerchiamo e, allo stesso tempo, conoscere già i nostri perché può aiutarci a capire da dove cominciare a sperimentare.
Va benissimo avere solo un perché, ovvero solo una forza trainante che guida tutte le nostre azioni, va anche bene averne molteplici. Non dobbiamo obbligatoriamente ostinarci a ricondurre necessariamente tutta la nostra esistenza ad un unico perché, non c’è una regola (questo, per sfatare anche il mito “dell’unica vera vocazione” – una persona, infatti, potrebbe trarre soddisfazione dallo svolgere diverse attività o cambiare nel corso della vita).
Come individuare i tuoi perché?
Per aiutarti ad individuare i tuoi perché, e quindi tutte quelle attività che hanno per te un significato, un esercizio da cui partire potrebbe essere il seguente (tratto e riadattato dal testo di Wapnick “Diventa chi sei”):
- Ripensa ad una occasione in cui ti sei sentito/a veramente vivo, felice ed entusiasta. Cosa stavi facendo in quell’occasione? Cerca di trovare più dettagli possibili dedicando qualche minuto a questa attività
- Dopo aver risposto a questa prima domanda, prova a chiederti ora perché amavi fare quella cosa, cosa ti spingeva a farla.
- Ripeti questo esercizio per tutte quelle occasioni in cui ti sei sentito vivo ed appagato, non deve essere necessariamente una.
Un altro strumento indispensabile per la propria realizzazione professionale sono le àncore di carriera di Edgar Schein
Cosa sono le àncore di carriera e perché è cosi importante conoscerle per la propria realizzazione?
Perché esse rappresentano l’insieme delle nostre competenze, delle nostre motivazioni e valori: Schein, il padre di questo importante costrutto, le definisce come una sorta di immagine che si sviluppa dentro ognuno di noi e che ci aiuta, ci guida nel compiere scelte, nel prendere decisioni, che sono nel nostro interesse e non nell’interesse di altri.
Non conoscere le proprie àncore rischia di esporci a scelte, a soluzioni che con il tempo potrebbero rivelarsi insoddisfacenti, semplicemente perché non ci rappresentano.
Schein ha individuato 8 àncore di carriera supportate da un questionario di autovalutazione, che non vuole rappresentare un test diagnostico quanto piuttosto un modo efficace per descrivere se stessi in un determinato momento di vita, per aiutare a capire e conoscere le proprie priorità e quindi compiere delle scelte professionali quanto più soddisfacenti possibile.
- Prima àncora: la competenza tecnico-funzionale
Le persone ancorate a questa competenza sono più attratte dalla specializzazione tecnica che dai contenuti gestionali del lavoro.
- Seconda àncora: la competenza manageriale generale
Quest’àncora motiva le persone che cercano la responsabilità, la possibilità di influire mediante decisioni, l’ascesa nella struttura aziendale. Vogliono essere responsabili, nel bene e nel male, dei risultati e identificano il proprio lavoro con il successo dell’organizzazione per la quale lavorano.
- Terza àncora: l’autonomia/indipendenza
Questa àncora caratterizza le persone che non possono rinunciare alla possibilità di definire il proprio lavoro in modo autonomo. Nonostante esistano alcune posizioni all’interno delle organizzazioni che permettono in una certa misura questa libertà, la maggior parte delle persone con quest’àncora sceglie lavori autonomi.
- Quarta àncora: la sicurezza/stabilità
Le persone motivate da quest’àncora non possono rinunciare alla sicurezza di un impiego e alla relativa posizione all’interno dell’organizzazione. In altre parole, sono alla ricerca del cosiddetto “posto fisso”.
- Quinta àncora: la creatività imprenditoriale
Le persone che ottengono il punteggio più elevato a questa àncora generalmente non riescono a rinunciare all’idea di poter creare un’impresa, un progetto proprio, costruito con le proprie forze e risorse, accettando di assumersi anche tutti i rischi del caso.
- Sesta àncora: il servizio/dedizione alla causa
Le persone che raggiungono il punteggio più alto a quest’àncora non possono rinunciare a servire/dedicarsi ad una buona causa attraverso il lavoro che svolgono.
- Settima àncora: la sfida/paura
Le persone motivate da quest’àncora non possono rinunciare alla possibilità di misurarsi con sfide impossibili, situazioni avverse che sembrano insuperabili. Generalmente queste persone quando accettano una posizione è perché in questa vedono la possibilità di misurarsi con problemi e sfide complesse, sia di natura intellettuale che fisica.
- Ottava àncora: lo stile di vita
Le persone che ottengono il punteggio più alto a questa àncora non possono rinunciare a trovare un equilibrio tra bisogni personali, famigliari e di carriera. Generalmente sono orientate verso opportunità professionali che offrano una certa flessibilità cosi da poter trovare più facilmente questo equilibrio e questa integrazione tra i diversi ambiti di vita.
Il ruolo dell’orientamento professionale: una risorsa indispensabile
Negli ultimi anni, soprattutto di fronte ai repentini cambiamenti nel mondo del lavoro, l’orientamento sta diventando sempre di più un supporto indispensabile per accompagnare le persone nei momenti di scelta, di cambiamento, tanto in ambito formativo che lavorativo.
L’orientamento si configura come un vero e proprio percorso di conoscenza e scoperta individuale, in grado di guidare la persona verso scelte consapevoli e quanto più soddisfacenti, prestando particolare attenzione:
- all’individuazione e all’attivazione delle capacità e potenzialità personali;
- all’analisi delle motivazioni, desideri e aspirazioni personali e professionali;
- all’analisi dell’ esperienza formativa e professionale;
- per finire con l’elaborazione di un vero e proprio progetto di vita personale e professionale.
Se senti il bisogno di un aiuto in più per capire quale strada personale e professionale intraprendere, gli psicologi di OneSession.it ti offrono la possibilità di prenotare un primo colloquio gratuito. Per prenotare il tuo incontro, puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti bibliografici
Schein, E.H., Van Maanen,J. (2019, trad.it.), Le àncore di carriera, Giorgio Pozzi Editore.
Wapnick, Emilie, (2018, trad.it.), Diventa di chi sei, MGMT Edizioni.

Psicologa- specializzanda in psicoterapie brevi sistemico-strategiche. Grazie alle terapie brevi e alla mia formazione nell’ambito dell’orientamento professionale e dello sviluppo delle soft skills, riesco ad aiutare le persone che si rivolgono a me a superare momenti di difficoltà e disagio, sia in ambito personale che lavorativo, riattivando le risorse e abilità personali e aiutandole a realizzare i propri obiettivi e riconquistare una percezione generale di benessere nel più breve tempo possibile

Ansia: i primi passi da compiere per gestirla
L’ansia non ci sottrae il dolore di domani, ma ci priva della felicità di oggi. Leo Buscaglia
In questo articolo andremo a vedere quali sono i primi passi che puoi iniziare a compiere per gestire l’ansia. Ma prima…
Si fa presto a dire ansia!
L’ansia è forse uno dei termini psicologici più utilizzati nel linguaggio comune.
Chi di noi non ha mai sentito un amico o un parente dire di sentirsi “un po’ ansioso?”.
Questo perché l’ansia fa parte della nostra vita, è di fatto un meccanismo utile e potenzialmente funzionale per la nostra sopravvivenza. Questa parola però a volte viene utilizzata in modo improprio, come “un’etichetta” per provare a dare senso a una gamma di reazioni spiacevoli che sentiamo ma a cui non sappiamo dare un senso. Ed è un attimo che ci sentiamo tutti delle “persone ansiose”.
Riuscire a capire effettivamente che cosa sia l’ansia, come si manifesta e che cosa possiamo fare per iniziare a gestirla quando diventa invalidante può risultare una bella sfida.
In questo articolo proverò a fare chiarezza su questo argomento e a darti alcune indicazioni utili per muovere i primi passi per affrontarla, cominciando con il capire di che cosa stiamo parlando.
Che cos’è l’ansia?
Alcune persone tendono a confondere la paura con l’ansia: la prima, è l’emozione di base che abbiamo di fronte ad uno stimolo definito e specifico, percepito come pericoloso per la nostra incolumità. La paura solitamente, quando lo stimolo minaccioso viene meno, scompare.
L’ansia invece potremmo descriverla come “la paura della paura”: si tratta di una costellazione di reazioni anticipatorie rispetto a qualcosa che potrebbe accadere. Si può manifestare con diverse reazioni psicofisiologiche: a livello di pensiero, emozione e sensazioni fisiche.
Nella sfera cognitiva, potremmo avere un senso di vuoto e confusione mentale, pensieri pervasivi di forte preoccupazione sul passato, il presente o il futuro (che possono presentarsi anche sotto forma di immagini e ricordi). A livello emotivo potremmo sperimentare forte angoscia, smarrimento, sofferenza. Per quanto riguarda le sensazioni fisiche invece, potremmo provare tensione muscolare negli arti inferiori, superiori o su collo e schiena, palpitazioni, sensazione di fiato corto, dolori addominali o intestinali fino ad avere veri e propri crampi e nausea. Si possono inoltre verificare anche tremori, vertigini e forte sudorazione.
Tutte queste sue manifestazioni, possono essere funzionali per preparare il corpo ad attivarsi per fronteggiare il pericolo imminente con 3 possibili reazioni comportamentali: la fuga, l’attacco o il freezing (che in natura spesso anche gli animali mettono in atto “paralizzandosi” come per fingersi morti e scampare così il pericolo).
L’ansia quindi, ci può difendere di fatto da ciò che ci minaccia, dandoci la possibilità di reagire.
Quando l’ansia diventa un problema?
L’ansia può diventare un problema quando si verifica in modo eccessivo ed immotivato e se diventa pervasiva per la vita di chi la prova. Può condizionare talmente tanto la nostra vita da non permetterci più di funzionare bene nella nostra sfera personale, lavorativa e sociale. Questa è la differenza tra provare saltuariamente e in casi specifici una sana ansia (reazione naturale a scopo difensivo) e soffrire invece di un disturbo d’ansia (inappropriato, ricorrente e limitante).
Che cosa fa una persona quando soffre d’ansia?
Ci sono diverse azioni che le persone provano a mettere in atto spontaneamente quando iniziano a soffrire d’ansia. Sono tentativi fatti per cercare di risolvere e controllare il problema, cercando di liberarsene. Purtroppo però a volte, è proprio quello che facciamo per far andare via l’ansia che la fa peggiorare. Vediamo insieme alcuni esempi e i primi passi che possiamo fare per risolvere questo problema.
L’evitamento
Se qualcosa ci mette ansia, una delle prime cose che ci viene da fare è evitarla.
Prova a pensare di provare fortissima angoscia alla sola idea di dover parlare in pubblico: potresti pensare che smettere di farlo ti metterà al sicuro. Così facendo però, a lungo andare potresti rinunciare ad alcune occasioni importanti lavorative o sociali. La tua soluzione, invece di aiutarti, potrebbe diventare per te un altro problema.
Parlare del problema e chiedere aiuto ad amici/parenti.
Un disturbo d’ansia è come un fiume che ci invade fino ad esondare ed invadere tutta la nostra vita. Può essere frequente quindi cedere all’impulso di lasciarglielo fare, condividendo con le persone che ci circondano il nostro malessere parlandone in continuazione. Se all’inizio sfogarci può farci sentire meglio, a lungo andare potrebbe ingigantire il problema. Più ne parliamo infatti, più ci concentriamo sui suoi aspetti negativi, su quanto siamo infelici/sofferenti e togliamo spazio invece agli aspetti belli della nostra vita. Così facendo, finiamo per dare all’ansia molto più potere di quanto già ne abbia.
Inoltre, le persone che ci stanno intorno potrebbero non apprezzare più così tanto la nostra compagnia, in quanto sentirsi invadere dall’ansia altrui, non è affatto piacevole.
Cercare di controllarla.
L’ansia, come abbiamo detto, è una reazione di per sé naturale. Provare a reprimerla razionalmente, cercando di controllarne le reazioni psicofisiologiche, paradossalmente potrebbe farla peggiorare. Se ad esempio abbiamo le palpitazioni, provare a concentrarsi sul proprio battito e imporsi di rallentarlo, non farà altro che aumentare la nostra tensione, amplificandolo. Non riuscire nel controllo, ci fa sentire di aver perso ancor di più il controllo. E questo è come gettare una miccia accesa in un pagliaio.
I primi passi per gestire l’ansia: passo uno
Un primo passo per iniziare a gestire l’ansia, è innanzitutto capire nel tuo caso specifico di cosa stiamo parlando. Inizia a disegnare un vero e proprio identikit della tua ansia, ragionando su quello che provi nei 3 assi di cui ho parlato in questo articolo: pensiero, emozione e sensazione.
Passo due
Come secondo passo, cerca di riflettere anche su quando, dove, con chi e quanto frequentemente si verifica. Questo processo è di per sé già molto utile per circoscriverla e capire come affrontarla concretamente. Spesso noi stessi rendiamo più grandi i nostri problemi di quanto siano effettivamente. Potremmo invece scoprire che non soffriamo “sempre” di ansia, ma solo in alcuni contesti. Questo già potrebbe farci sentire meglio, non pensi?
Passo 3
Come terzo passo, prova a individuare che cosa fai solitamente per cercare di affrontare l’ansia e chiediti se sta funzionando bene per te. Se la risposta è no, ti faccio i miei complimenti: intanto, sei riuscit* a capire che cosa sta mantenendo il problema. A questo punto, potresti provare a interrompere quel comportamento e vedere se succede qualcosa di diverso (ad esempio, piuttosto che parlare dell’ansia con amici e parenti, prova a scrivere di getto tutto quello che provi su un pezzo di carta e a gettarlo via senza neanche rileggerlo, per lasciar defluire il fiume dell’ansia senza invadere la tua vita privata).
Se questi passi non fossero sufficienti per te, ricordati che con la consulenza a seduta singola è possibile individuare in una sola seduta delle strategie concrete per fronteggiare l’ansia.
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Bibliografia
Secci, E. M. (2005). Le Tattiche del Cambiamento. Manuale di Psicoterapia Strategica.
Leonardi, F., & Tinacci, F. (2021). Manuale di Psicoterapia Strategica. 80 tecniche di intervento. Erickson.

Sono una Psicologa iscritta all’Albo A degli Psicologi del Lazio e all’Istituto ICNOS: Scuola di Psicoterapie Brevi Sistemico-Strategiche.
Nel mio lavoro integro le mie competenze multidisciplinari per offrire ai miei clienti soluzioni personalizzate ed aiutarli a raggiungere i propri obiettivi in tempi brevi. Utilizzo la TSS per ottenere il massimo da ogni singolo incontro.

Come creare dei buoni propositi che funzionino
Quando arrivano i buoni propositi?
Ogni anno all’arrivo del fatidico “10…9…8”, prima della mezzanotte dell’ultimo giorno dell’anno, si pensa a tutto ciò che abbiamo fatto nei 365 giorni appena trascorsi. Ci prepariamo alla lista dei buoni propositi che butteremo giù nei primi giorni del nuovo anno.
Scrivo nel penultimo giorno di un anno che ci ha visti protagonisti di moltissimi eventi. Il passaggio da pandemia da Covid-19 a endemia, la guerra in Ucraina, la morte della Regina Elisabetta dopo 70 anni di regno, la vittoria della Francia ai mondiali di calcio del Qatar, l’elezione del primo Presidente del Consiglio donna nel nostro Paese, la scoperta del Metaverso che segna l’inizio del secondo tempo di facebook.
Con il nuovo anno arriva inesorabile anche il desiderio di cambiare qualcosa nella nostra vita.
È come se ci sentissimo più motivati e pronti al cambiamento.
Più aperti alle novità.
Più desiderosi di nuovi o ambiziosi progetti sui quali concentrare le nostre energie e forze.
Può trattarsi anche di obiettivi piccoli ma per noi importanti. Migliorare il nostro stile di vita, le relazioni o la condizione professionale.
Alzi la mano chi non ha mai detto: “Quest’anno mi iscrivo in palestra…”, “Quest’anno voglio viaggiare di più…”, “Quest’anno smetterò di fumare…” e così via.
Alzi la mano chi non ha mai compilato la sua lista di buoni propositi a inizio anno. Si tratta quasi di una tradizione che, a livello psicologico, rappresenta una vera e propria rinascita. Migliorare aree della nostra vita, abbandonare delle abitudini, dare il via a tutte quelle cose che sono state a lungo rimandate.
Spesso però la cosa più difficile non è crearli i buoni propositi, bensì mantenerli nel tempo.
Abramo Lincoln disse: “Il modo migliore per predire il tuo futuro è crearlo”. E lui lo creò, desiderando e attuando l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti nel 1865.
Il significato psicologico dei buoni propositi
Quando un nuovo periodo si avvia, sentiamo la possibilità di far nascere altre opportunità, di curare le imperfezioni e gli errori che ci hanno accompagnato o visti protagonisti nel nostro passato.
Il lunedì, l’arrivo della primavera, l’ingresso della stagione autunnale, l’inizio del nuovo anno sono di solito momenti iconici. Periodi ideali per riflettere, fare bilanci, lanciarsi in nuovi progetti.
Quando fissiamo dei nuovi propositi è come se ci vedessimo riconosciuta una seconda possibilità, la possibilità di voltare pagina. È come se ci venisse dato in dotazione dell’altro tempo per fissare i nostri traguardi. Questo ci consente di prepararci agli eventi futuri e avere un piano B in caso di imprevisti o fallimenti.
In noi c’è un innato bisogno a progredire, ad andare avanti. I buoni propositi ci permettono di salvaguardare la nostra esistenza e di guardare e ambire ad una versione migliore di noi stessi.
I buoni propositi (se buone sono le loro prerogative e dopo lo vedremo!) ci permettono di coltivare la nostra motivazione al cambiamento.
Ci aiutano a prendere il controllo della nostra vita attraverso l’attuazione di piccoli gesti.
Ci portano a nutrire maggiore fiducia in noi stessi quando sentiamo di aver raggiunto e realizzato il nostro obiettivo.
Soprattutto rappresentano la capacità di individuare nuove strategie, finalizzate a mantenere o migliorare la nostra condizione.
I buoni propositi sono in realtà i nostri desideri.
Definirli può avere un grande impatto sia sul nostro comportamento che sul nostro stato d’animo perché iniziare a pensare significa attivarsi.
Ci invitano a migliorare, a creare nuove sfide. Costruirli significa avanzare e ampliare ciò che sappiamo e siamo.
Quando la nostra mente immagina uno scopo da raggiungere in maniera positiva e orientato al nostro benessere, si attiva mettendo in atto tutte le risorse necessarie.
Perchè falliscono i buoni propositi?
La magia dei buoni propositi spesso però fallisce miseramente.
La difficoltà a perseguire intenzioni che vanno nella direzione del cambiamento è cosa comune e ci pone dinanzi diversi interrogativi.
Fissiamo i buoni propositi nel momento giusto per noi?
Ci appartengono davvero?
Li formuliamo in maniera specifica, realistica e non generica?
Cerchiamo di tradurre un obiettivo generico, ad esempio “Quest’anno cambio vita…”, in azioni concrete e quotidiane?
Cerchiamo di attuarli con un certo metodo?
Teniamo conto davvero delle nostre capacità e dei nostri mezzi?
I buoni propositi vanno adeguati sempre al proprio quotidiano.
Vanno fissati alla propria realtà e trasformati, passando per prove, fallimenti e successi, in consuetudini e azioni nuove e praticabili.
Una volta definiti, i buoni propositi, vanno osservati per capire cosa ci dicono di noi e dell’immagine che abbiamo di noi, della direzione che vogliamo intraprendere e della nostra capacità di “stare con i piedi per terra”.
Darsi un tempo poi ci permette di verificare passo dopo passo i nostri progressi e di aggiustare il tiro in corso d’opera. Questo significa che segnare nella mia agenda sensoriale un inizio e una fine per il raggiungimento di un obiettivo, mi permetterà di verificarne i risultati intermedi e rafforzare così autostima e motivazione oppure decidere di cambiare strategia di attuazione o addirittura l’obiettivo stesso.
Realistico. Misurabile. Raggiungibile. Un buon proposito dovrebbe essere questo.
Quando un obiettivo è poco definito, perché magari descrive un’aspirazione generica, “Vorrei stare bene…”, “Vorrei essere felice…”, è necessario trasformarlo in azioni concrete.
Questo richiede consapevolezza e buona conoscenza di sé e dei propri meccanismi sia interiori che esteriori. Ma soprattutto ci può dare la possibilità di vedere realizzato qualcosa della nostra lista.
E tu hai segnato già i tuoi buoni propositi?
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Riferimenti bibliografici
https://www.flaviocannistra.it/2019/03/27/come-creare-obiettivi-smart-in-terapia-breve/

Psicologa, Mediatrice Familiare, Esperta in Scienze Forensi

Come imparare dagli errori
Cos’è un errore? Come possiamo imparare dagli errori?
In questo articolo cercheremo di capire significati e valori degli errori.
Significati
“Errare humanum est”, dicevano gli antichi.
Sbagliare fa parte della natura umana, gli errori sono parte integrante delle esperienze di vita.
Siamo esseri fallibili e come tali è sano poter convivere con l’idea di commettere delle imprecisioni che potrebbero portare ad esiti non sempre felici da accogliere.
Il nostro cervello si è evoluto per sbagliare.
“Sbagliando si impara” non è solo un proverbio: il nostro cervello da quando nasciamo è strutturato per fare degli errori e apprendere da essi.
Se osserviamo i processi di apprendimento di un bambino che si applica per andare in bicicletta è possibile notare i numerosi tentativi per trovare il giusto equilibrio.
Le cadute e gli sbandamenti fanno parte del processo di crescita.
Gli errori non rappresentano solo un pericolo ma anche un’opportunità.
Essi ci permettono di sperimentare, di esplorare diverse possibilità per individuare il percorso migliore o la scelta più confacente.
L’errore certamente può avere conseguenze disastrose, negative, se agire con prudenza è necessario per prevenire i rischi, lasciare che la paura di sbagliare ci blocchi è molto rischioso.
Carl Jung diceva “Chi evita l’errore elude la vita”, evitare di sbagliare è impossibile, il primo passo è cominciare a fare pace con la nostra fallibilità.
Il valore dell’errore
Per imparare dagli errori bisogna cominciare a riconoscerli.
Molto spesso si fatica a vederli, osservarli poiché si genera dissonanza cognitiva, cioè uno stato di tensione psicologica ed emotiva dovuto al presentarsi di due pensieri in contrasto fra loro.
Ammettere un errore entra in conflitto con la nostra autostima.
Talvolta attribuiamo ad altri i comportamenti poco corretti piuttosto che ammettere di aver sbagliato.
Tendiamo a ripetere un comportamento che una volta si è dimostrato vantaggioso senza renderci conto che la situazione e il contesto si sono modificati.
La rigidità di pensiero e l’applicazione stabile e fissa di alcune nostre convinzioni ci fanno sbagliare.
Lo psicologo austriaco Paul Watzlawich chiamava questi comportamenti “tentate soluzioni”.
Siamo talmente convinti che ciò che facciamo sia giusto che continuiamo a ripeterlo.
Spostare il punto di vista e accettare i propri limiti è il secondo passo che possiamo attuare per migliorarci ed evolvere.
Per fare questo dobbiamo osservaci con più attenzione.
Strategie in pratica
Partendo dal presupposto che l’errore è utile e ci fa progredire, proviamo ad allenare un pensiero che ci possa condurre ad una visione più costruttiva di ciò che ci può apparire come insuperabile.
Ammettere di aver sbagliato è un importante atto di coraggio e richiede molta apertura mentale e rispetto verso se stessi.
Dedicarsi del tempo per riflettere sulle circostanze e comportamenti praticati è una buona e sana abitudine che ci consente di entrare più in vicinanza con noi stessi, dobbiamo essere complici non punitivi verso i nostri difetti.
Prendere la giusta distanza da ciò che ci preoccupa e ci turba è un aspetto rilevante poiché il rischio è quello di essere inghiottiti da ciò che vediamo poco funzionale ed influisce negativamente sui pensieri orientati alla soluzione.
Investiamo le nostre energie mentali per pensare a ciò che può essere recuperato piuttosto che rimuginare e attirare a noi pensieri dannosi.
Essere coerenti aiuta ad avere un equilibrio fra pensieri e comportamenti, impariamo ad osservare causa e conseguenze di ciò che ci accade e confrontiamoci con altri per condividere idee e pensieri.
Confidarsi con chi non giudica offre opportunità di cambiamento.
Uscire dal perfezionismo è un ulteriore passo necessario per liberarsi dall’idea che lo sbaglio in qualche modo non è consentito.
Qualunque imperfezione è inaccettabile.
Spesso il perfezionismo rappresenta un bisogno di estremo controllo, si cerca di controllare emozioni, pensieri, comportamenti e le performance.
Un atteggiamento più flessibile, pensare in modo meno rigido e prendere in considerazione una vasta gamma di interpretazioni possibili all’errore aiuteranno a gestire meglio emozioni e comportamenti.
Pensare alle risorse, in termini di ciò che si è fatto in passato e che ha funzionato aiuta a sostituire i pensieri improntanti al problema o al fallimento.
Le energie vanno concentrate per motivazione e raggiungimento dell’obiettivo, una buona pianificazione può ridurre gli errori e aiuta a prevenire gli imprevisti.
Imparare ad osservare è una buona abitudine.
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Riferimenti bibliografici
https://psiche.santagostino.it (consultato in data26/09/2022)
https://www.crescita-personale.it/articoli/crescita-personale/psicologia/errore-psicologia.html (consultato in data 26/09/2022)
https://www.lostudiodellopsicologo.it/ (consultato in data 26/09/2022)

Psicologa & Psicoterapeuta in formazione. Specializzata in Potenziamento Cognitivo e Psicologia Scolastica. Ordine degli Psicologi della Lombardia n.03/13262

Quando basta una sola seduta per risolvere un problema
Quando basta una sola seduta per risolvere un problema?
O meglio, può davvero bastare una sola seduta per risolvere un problema?
È molto diffusa l’idea che, dato che ci sono voluti anni per creare i nostri problemi, servono altrettanti anni per risolverli.
Questo in realtà non è affatto vero!
Per esempio ci vogliono anni a costruire una diga, ma una breccia nel punto giusto può farla crollare in qualche ora e modificare in maniera sostanziale e definitiva tutto l’ambiente circostante!
E potrei farvi molti altri esempi a questo riguardo!
Quindi cosa fa la differenza e quando basta una sola seduta per risolvere un problema?
Sono molti i fattori che possono influire sulla riuscita o meno di una sola seduta anche perché, ci tengo a sottolinearlo, non è detto che basti una sola seduta.
Anzi spesso terapeuta e paziente scoprono solo alla fine della seduta stessa se questa può essere considerata soddisfacente oppure no.
La Terapia a Seduta Singola non è efficace perché è breve, ma è breve proprio perché è efficace.
In particolare si è dimostrata utile perché:
- La persona riesce a focalizzare in maniera chiara e semplice il problema e lo trasforma in un obiettivo concreto e raggiungibile.
- Una volta messo a fuoco il problema, spesso la persone realizza che la sua situazione è risolvibile e non richiede un tempo lungo per essere risolta.
- Allo stesso modo, identificando le proprie risorse e le eccezioni al problema, ossia le volte in cui spontaneamente il problema non si presenta, spesso la persona scopre che con un cambiamento piccolo si può innescare un circolo virtuoso che porta al superamento della difficoltà stessa.
Ma cosa ci dice la ricerca?
Negli anni ’80, Moshe Talmon si rese conto che un gran numero di pazienti del Kaiser Permanente, la struttura ospedaliera presso cui lavorava, si presentava per una sola seduta di psicoterapia per poi non tornare più.
Iniziò quindi a chiamare 200 pazienti della struttura chiedendogli il motivo della fine del proprio percorso e scoprì con stupore che il 78% di quei pazienti non veniva più perché, semplicemente, riteneva quell’unica seduta sufficiente.
Gli studi che si sono susseguiti poi nel tempo ci hanno portato a tre consapevolezze:
- Quando viene proposta il 30/40% delle persone pensa che una sola seduta possa essere sufficiente. La differenza la fa il sentire di quella persona in quel momento, non il problema. Per questo ci possono essere persone diverse, in momenti diversi della loro vita, che per lo stesso problema hanno bisogno di una sola seduta oppure richiederne di più.
- il 60/80% di queste persone, ricontattate dopo mesi, conferma che il problema non c’è più o che comunque si è ridotto di molto e che quindi non ritiene di aver bisogno di fare altre sedute.
- Solo alla fine della seduta la persona sarà in grado di dire se quella seduta è sufficiente o meno. E comunque, per la natura stessa della Terapia a Seduta Singola, qualora dopo tempo dalla seduta la persona sentisse di aver bisogno di un altro incontro, basterà semplicemente ricontattare il terapeuta e fissare un nuovo incontro.
In concreto quando può essere utile fare una sola seduta?
Sono molti i motivi che possono portarti a richiedere una singola seduta.
Vediamone alcuni.
1- Per risolvere un problema.
A volte, in questi casi, ciò che serve è semplicemente iniziare a fare il primo passo. E’ in queste situazioni che la Terapia a Seduta Singola mostra tutta la sua efficacia.
2- Per trovare le strategie per risolvere un problema.
Andare dallo psicologo spesso non significa ammettere di non farcela da sola. Anzi, vuol dire andare alla ricerca delle strategie più efficaci per poter risolvere i propri problemi e poi utilizzarle in autonomia.
3- Per cercare un confronto.
Per la sua formazione e il suo mindset lo psicologo è preparato ad essere un confronto oggettivo e, allo stesso tempo, aperto nei confronti della persona.
Questo lo porta ad avere la capacità di guidare la persona da un lato a scoprire le proprie risorse e, dall’altro, a vedere le situazioni da punti di vista diversi così da trovare la strategia più efficace per ognuno.
4- Per gestire un’emergenza o una crisi.
Spesso nel momento più acuto di un’esperienza ci si può sentire sopraffatti.
Per questo può essere utile ricorrere ad uno specialista. Può essere uno sfogo o la ricerca di un confronto, un momento di ascolto o la ricerca di strategie per superare la crisi.
5- Avviare o consolidare un cambiamento.
A volte nel mezzo del cammino ci si può sentire disorientati. In questi casi confrontarsi con un professionista può aiutare a comprendere il proprio percorso ed eventualmente aggiustare la rotta.
Conclusioni
Fare una Terapia a Seduta Singola non vuol dire fare per forza una sola seduta. Vuol dire massimizzare l’efficacia di quest’ultima e spesso questo porta le persone a sentirsi soddisfatte anche dopo un solo incontro.
O anche no.
Perché non c’è una regola fissa, ma solo il vissuto della persona e i propri bisogni contestuali.
Se senti il bisogno di un aiuto professionale, contatta OneSession!
Ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 minuti.
Per maggiori informazioni, puoi inviare una email a info@onesession.it o visitare le nostre pagine Facebook e Instagram
Riferimenti bibliografici
Cannistrà F., Piccirilli F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Firenze: Giunti.
Hoyt, M.F. & Talmon, M. (eds.) (2014). Capturing the Moment. Single Session Therapy and Walk-In Services. Bancyfelin, UK: Crown House


Ortoressia: l’ossessione per il cibo sano
L’ortoressia è l’ossessione per il cibo sano.
La parola Ortoressia deriva dal greco Orthos (giusto) e Orexis (appetito).
Bratman nel 1997, fu il primo a coniarne il termine.
Secondo i dati diffusi in Italia dal Ministero della Salute, le persone con ortoressia sarebbero 300 mila, a fronte di 3 milioni di pazienti con disturbi del comportamento alimentare.
Tale disturbo ha una prevalenza del 11.3% tra gli uomini contro un 3.9% tra le donne (Donini e coll. 2004).
Tale fenomeno di genere è possibile rintracciarlo nelle ideologie culturali maschili legate alla forma fisica, in comorbilità con la Vigoressia, ossia la preoccupazione cronica di non avere un corpo sufficientemente muscoloso.
Come riconoscere l’ortoressia
- Ruminazione ossessiva sul cibo, cioè il pensare per piu di 3-4 ore al giorno a quali cibi salutari scegliere;
- Comportamenti ossessivi: la persona ortoressica pone estrema attenzione alla selezione, ricerca, preparazione ed il consumo degli alimenti; attenzione alla provenienza e alla modalità con cui viene lavorato il cibo scelto. Molto spesso il soggetto ortoressico sceglie di coltivare e produrre da solo il cibo, in modo tale da poterne seguire il processo.
- Insoddisfazione affettiva e isolamento sociale è causa di regole alimentari autoimposte molto rigide e di una persistente preoccupazione verso il cibo (Brytek-Matera, 2012).
Il non prestare particolare attenzione alle suddette regole, può innescare nella persona ortoressica conseguenze emotive importanti: sensi di colpa (ansia crescente), rabbia, umore depresso, sino alla comparsa di disturbi fisici (indigestioni, nausea, vomito).
Di contro, la riuscita nel osservare le regole alimentari, comporta elevati livelli di autostima e un livello elevato di soddisfazione emotiva.
L’isolamento sociale è causato dalla mancanza, da parte della persona ortoressica, di momenti di condivisione delle proprie abitudini con soggetti terzi.
Esse evitano eventi sociali come pranzi, aperitivi, ricevimenti. Tali occasioni si possono trasformare in un vero e proprio campo minato.
L’attenzione alla qualità del cibo prevale sui valori morali e sulle relazioni sociali, lavorative ed affettive, compromettendo il funzionamento globale e il benessere dell’individuo (Brytek-Matera, 2012).
Il paradosso dell’ortoressia
La persona ortoressica, accecata dal controllo e dalla ricerca ossessiva del cibo sano per il raggiungimento del proprio stato di benessere, si illude, che la propria salute ed il proprio benessere dipendano dal cibo.
Tale comportamento, si riflette poi su tutta la sfera personale del soggetto esercitandone pieno controllo.
L’ortoressico: fanatismo alimentare?
Coinvolta in un complesso di superiorità, la persona ortoressica, arriva a disprezzare tutti coloro che non mangiano sano.
Persone poco degne di essere frequentate e soprattutto ritenute poco intelligenti.
Questo fanatismo sembra essere basato su una conoscenza superficiale e semplicistica delle regole alimentari corrette.
Il soggetto con spiccato fanatismo alimentare non ricerca il confronto con professionisti del settore, né tanto meno si trova a supportarne l’operato.
Un trattamento efficacie contro l’Ortoressia è possibile?
Sebbene l’Ortoressia sia una patologia meno conosciuta e compresa nel panorama odierno dei disturbi del comportamento alimentare, essa è in realtà una forma di alimentazione irregolare che, se non curata, può causare difficoltà di salute irreversibili.
Le persone ortoressiche convinte del loro pensiero, non mostrano interesse alcuno nel impegnarsi attivamente nel percorso di trattamento, non riconoscendone un reale problema.
Una possibilità di trattamento, è andare a lavorare sulle emozioni, (dalla paura della contaminazione alla malattia che genera una vera e propria ossessione), il condurre la persona a riappropriarsi di una corretta percezione del proprio corpo.
L’obiettivo del trattamento sarà quello di ristabilire una relazione sana con il cibo, tale per cui la persona non veda più il cibo come fonte di malessere, ma piuttosto fonte di energia e piacere!
Fondamentale sarà durante il trattamento, la collaborazione con un’équipe multidisciplinare: psicoterapeuti, medici, nutrizionisti.
Lavoro che dovrà trovare supporto congiunto efficace ed efficiente nella famiglia della persona ortoressica.
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Riferimenti bibliografici
Bratman S., Knight D. (2000). Health food junkies. New York: Broadway Books
Brytek-Matera, A. (2012). Orthorexia nervosa-An eating disorder, obsessive- compulsive disorder or disturbed eating habit? Archives of Psychiatry and Psychotherapy, 4(1), 55-60
Donini, L.M., Marsili, D., Graziani, M.P., Imbriale, M., e Cannella, C. (2004). Orthorexianervosa: A preliminary study with a proposal for diagnosis and an attempt to measure the dimension of the phenomenon. Eating and weight disorders, 9, 151–1

Psicologa clinica e della riabilitazione, psicoterapeuta in formazione. Ho conseguito un Master in psicodiagnostica clinica e forense. Lavoro come libera professionista e collaboro con un centro di psicologia( Alternativamente) nella provincia di Roma. Sono mamma di tre bambini.

Lo stile genitoriale autorevole
Cos’è uno stile genitoriale? Come si connota lo stile autorevole?
Stili educativi genitoriali
Ogni genitore porta nel suo ruolo la sua unicità e specificità acquisite dalla propria famiglia di origine.
Le esperienze passate di ogni individuo contribuiscono in modo significativo al ruolo genitoriale acquisito.
Le peculiarità individuali non precludono la possibilità di potersi orientare tra differenti stili educativi genitoriali.
Essi danno la possibilità di stimolare il cambiamento di situazioni ricorsive, rimettendo in gioco risorse ed obiettivi più chiari.
All’interno di ogni famiglia gli stili educativi sono differenti, combinandosi fra loro creano un approccio unico.
E’ importante che i genitori imparino a collaborare e a combinare le loro differenze per creare coerenza e funzionalità.
Controllo e supporto, se ben bilanciati, sono parti fondamentali di ogni stile educativo.
Il controllo è riferito alle pressioni esercitate dai genitori per stimolare comportamenti adeguati attivando una supervisione sui figli.
Supportare è riferito a sostenere, con disponibilità e vicinanza emotiva, i bisogni dei figli, favorendo l’autoregolazione.
Dalla combinazione di queste due importanti variabili emergono quattro stili educativi:
autorevole, autoritario, permissivo, trascurante.
Lo stile autorevole è preferito. Esso stimola maggiormente l’autostima, l’assertività, la responsabilità e l’autonomia.
L’autorevolezza deve essere il frutto di qualità morali ed intellettuali. E’ una condizione necessaria allo sviluppo del bambino e al raggiungimento della sua maturità.
La famiglia autorevole
L’approccio autorevole è basato sullo stabilire regole e linee guida che il figlio è tenuto a seguire.
Lo stile autorevole è democratico poiché il genitore può adattare, per mezzo del dialogo, le regole alle esigenze e richieste dei figli.
Egli si impegnerà a dare valore all’indipendenza e all’autonomia, ma sa anche far valere la sua autorità.
E’ un genitore aperto alla negoziazione e disponibile a mettere in discussione il proprio punto di vista.
Le regole sono chiare, motivate, ed applicate in modo coerente.
Allo stesso tempo, con flessibilità, possono essere riadattate con le giuste motivazioni.
Al bambino viene data la possibilità di replicare eventuali decisioni ed esprimere la propria opinione.
Quando il figlio non riesce a soddisfare le aspettative, il genitore offre vicinanza emotiva e conforto.
Ciò che deve essere rilevante è che entrambi i genitori devono essere attivi sul piano educativo.
Questo non vuol dire che entrambi devono esprimere il loro ruolo con lo stesso stile e modalità.
Essi devono essere “squadra”, esaltando i punti di punti di forza dell’altro e sostenersi a vicenda nelle debolezze e difficoltà.
Genitori autorevoli consigli pratici
Essere coerenti è un modo di fornire sicurezza al bambino.
Seguire principi e valori per mezzo del dialogo e con i comportamenti è corretto, ed offre chiarezza.
Essere affidabili è imprescindibile, infonde fiducia e rispetto nell’altro. Il genitore diventa punto di riferimento.
Ammettere i propri errori è un insegnamento prezioso. L’errore è punto di partenza per migliorare. Chiedere scusa è importante anche per gli adulti.
Parlare di emozioni con il bambino permette al figlio di appropriarsi di un vocabolario emotivo fondamentale per il benessere. Offre la possibilità di riproporre in altri contesti messaggi, significati che possono essere meglio compresi anche nelle relazioni con gli altri. Fare esperienze ed offrirne è un allenamento per la vita, aiutare i bambini a dare un nome alle emozioni è il modo migliore per poterle esternare.
Il dialogo ed il confronto sono il motore di una crescita armoniosa e serena.
Chiedere opinioni e punti di vista ai propri figli li aiuterà a creare collegamenti, ad essere partecipi del proprio sapere, formarsi delle idee ed affermarsi nel gruppo.
Le scelte che faranno saranno dettate dall’esercizio sul confronto, il quale li renderà autonomi e liberi di poter intraprendere differenti percorsi.
Si può educare alla scelta ed al confronto valutando insieme ai genitori i pro e i contro di ogni alternativa, accompagnandoli con il dialogo alle riflessioni.
Riconoscere le qualità e le potenzialità nei propri figli aiuterà il genitore a comprendere come svilupparle e indirizzarle nel futuro.
Riferimenti bibliografici
https://www.centroarche.org/gli-stili-educativi-genitoriali-quattro-possibili-approcci/ (consultato in data 16/09/2022)
https://www.annabellsarpato.com/genitori-autorevoli/ (consultato in data 16/09/2022)
https://www.lenuovemamme.it/genitori-autorevoli/ (consultato in data 16/09/2022)

Psicologa & Psicoterapeuta in formazione. Specializzata in Potenziamento Cognitivo e Psicologia Scolastica. Ordine degli Psicologi della Lombardia n.03/13262

Come superare un trauma: 8 strategie utili
E’ possibile superare un trauma? Come?
In questo articolo approfondiremo cos’è il trauma e vedremo dei consigli utili per poterlo superare.
Si considera Trauma (dal greco “rottura, ferita”), l’esperienza imprevista diretta o indiretta di un evento, isolato o ripetuto, in cui ci si è sentiti in grave pericolo e impossibilitati a reagire.
Quell’evento probabilmente rimarrà nella memoria come trauma, producendo un cambiamento nella vita della persona, tale da esserci un prima e un dopo nella sua storia. È comune, infatti, sentir dire: “La mia vita prima era…. dopo invece…”, “Prima guidavo, da quel momento non più”, “Dopo quanto accaduto ho troppa paura di rivivere la stessa cosa”.
Un trauma porta insicurezza, ansia, rabbia, paura, vergogna, tristezza, senso di colpa, vulnerabilità e senso di impotenza.
Quale evento può generare un trauma?
Qualsiasi… Nel senso che non tutti gli eventi spiacevoli diventano traumi, ma ogni evento ha in sé un potenziale fattore di rischio traumatico, perché ogni ferita piccola o grande, invisibile e visibile, rivolta a sé o ad una persona cara, in base a come è vissuta dai protagonisti potrà diventare un trauma oppure no.
Dunque, non è l’evento X in sé e per sé a generare un trauma, ma la reazione soggettiva che la persona ha difronte alla minaccia, in quel momento storico della sua vita. Per questo non è possibile paragonare e giudicare i traumi, perché un evento può diventare uno spartiacque per me ma non per altri e viceversa. Pensiamo a un incidente, a un abuso, alla morte del proprio cane, a una diagnosi di malattia. C’è chi si sentirà perso, fragile, in colpa, senza la possibilità di aver scelto né di scelta futura, immaginerà scenari tortuosi e traumatici, alternerà rabbia, tristezza e solitudine. Vivrà un lutto, il lutto della vita precedente all’evento X.
Anche stress cronici di vita quotidiana, nella coppia o al lavoro, se non elaborati e gestiti, possono essere traumatizzanti e sviluppare finanche sintomi da disturbo post traumatico da stress (PTSD).
Alcuni accadimenti invece sono oggettivamente traumatici. L’11 Settembre 2001 o la Pandemia Covid-19, hanno avuto un impatto tale da esserci una vita che si conduceva prima e una dopo.
Lascio fuori dal discorso oggi i traumi complessi, costituiti da traumi cumulativi che non sempre hanno un evento spartiacque, e che richiedono uno spazio a parte.
Quali sono gli effetti di un trauma?
Quando abbiamo paura, attiviamo automaticamente dei meccanismi di difesa: attacco, fuga e congelamento, che condizionano scelte, pensieri, corpo ed emozioni in egual misura. Queste reazioni inconsapevoli e spontanee di sopravvivenza rimangono attive anche passato il momento di emergenza e pericolo. La persona si trova in allerta permanente, come se dovesse accadere improvvisamente qualcosa di spiacevole. Questi agiti creano reazioni fisiologiche, neurologiche ed emotive disfunzionali che coinvolgono ogni area psicofisica, sociale e cognitiva.
Il cervello e il corpo memorizzano la reazione di difesa e l’evento in ogni sua parte, creando una traccia che si riattiva ad ogni stimolo associato all’evento. Proprio come le tracce di un CD, al numero 5 corrisponderà sempre la canzone registrata. E allora possono manifestarsi:
- Pensieri e sogni o incubi ricorrenti, involontari e intrusivi associati all’evento traumatico
- Flashback, ossia improvvisi ricordi, in cui la persona percepisce suoni, odori, contatti, emozioni… come se l’evento, o parte di esso, stesse riaccadendo
- Livelli anomali di ormoni deputati alla gestione di stress e paura, che a lungo andare favoriscono stati emotivi negativi, emicranie e disagi gastrointestinali, patologie croniche, difficoltà mnemonica e di apprendimento, amnesie, dissociazione
- Disturbi del sonno e dell’alimentazione
- Ansia, Attacchi di panico, Fobie, Depressione
Gli effetti possono essere persistenti e invalidanti. Quando ciò accade la persona rimane incastrata nel passato, vivendo con grande difficoltà la possibilità di costruire un futuro desiderato. A lungo andare l’evento perde cronologia e coerenza all’interno della propria storia.
Questa atemporalità reattiva non permette alla persona di:
- essere vicino alla sua realtà quotidiana, nel qui ed ora,
- attingere alle sue risorse e ai punti di forza che le hanno permesso di sopravvivere fino a quel momento,
- vivere ma solo di arrancare.
È possibile superare un trauma?
Certo, ma serve affrontare e gestire il dolore, per rendere innocuo quel ricordo. Per fare dell’evento traumatico un passato che non impatti nel presente. Potremmo dire che il CD è riscrivibile, inserendo in archivio la traccia passata.
La maggior parte delle volte riusciamo a superare gli eventi che mettono a dura prova la nostra persona, esercitando le risorse necessarie per ripartire. Tuttavia, a volte si agiscono risoluzioni disfunzionali e che spesso bloccano le risorse e la possibilità di superarlo.
I 5 errori più comuni per superare un trauma
- Controllare i pensieri e voler dimenticare l’evento traumatico. Perché si ha paura di riviverlo. Ma, pensare di non pensare è pensare il doppio. Il nostro cervello per sapere a cosa non pensare deve pensare a cosa non dovrà pensare. Ma facendo così avremo sempre davanti ciò che non vogliamo, con la doppia fatica di combattere per non pensarlo. Ti conviene?
- Evitare tutte le situazioni che ci fanno ricordare o che attivano paure associate al trauma. Più evitiamo più aumenteranno le cose da evitare, perché aumenta la paura e la sensazione di impotenza. Fino ad impedirci di essere davvero liberi di scegliere. Evitare è come quella persona che gli dai un dito e si prende tutto il braccio. Ecco, lei è “evitare”.
- Chiedere rassicurazioni. Il senso di colpa di non farcela esige aiuto. L’ansia e il senso di vulnerabilità ci impongono di dipendere da qualcuno, dicendoci che da soli non possiamo riuscirci. Alimentiamo il nostro senso di incapacità e la consapevolezza nell’altro che non siamo in grado. Vorremmo che tutto si risolvesse automaticamente. Eppure, siamo nati per essere protagonisti della nostra vita.
- Abusare di sostanze o psicofarmaci, oppure tuffarsi nel lavoro per non pensare e non parlarne. La vergogna assale e si è ipersensibili e si vuole non esserlo.
- Credere che passato e imprevisti dolorosi ci condizioneranno per sempre, senza avere la possibilità cambiare le carte in tavola.
Cosa fare allora?
Usa le 8 strategie
- Prima di tutto, comprendi che superare la situazione, non dipende semplicemente dalla voglia che si ha, ma dal fatto che si ha bisogno di tempo e di aiuto.
- Chiediti: “come ho fatto a resistere fino ad oggi?” Quali capacità e risorse hai messo in atto?
- Sii gentile con te e grata/o a te stessa/o per quanto hai fatto e provato a fare.
- Fai qualcosa di nuovo ogni giorno. Riscoprirai risorse sepolte, ironia, sorriso.
- Dedicati del tempo piacevole per te e crea delle routine, ridanno sicurezza.
- Accetta che non tornerà tutto come prima, ma c’è un nuovo te da sperimentare.
- Accetta di aver bisogno di riscoprire chi sei al di là degli eventi e costruisci un futuro senza condizionamenti, un nuovo presente e nuove consapevolezze.
- Esprimi ciò che vivi e hai vissuto. Ascolta la musica, torna a dipingere, scrivi…
Raccontarsi mentre ci si riscopre pieni di risorse è importante, perchè bisogna passare il guado che fa paura. Non temere di doverne “parlare”. Se lo fai con un professionista sarai al sicuro nel guardare la tua storia e riscriverla. Ci sono tanti modi di parlare e narrarsi per ridare la giusta collocazione agli eventi, cronologicamente ed emotivamente, integrare la tua storia, la tua persona.
Il passato non puoi cambiarlo. Ma puoi scegliere come costruire il tuo domani a partire dal tuo Oggi.
Vuoi riprendere in mano la tua vita, nonostante il trauma? Contattaci.
Ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 minuti.
Per maggiori informazioni, puoi inviare una email a info@onesession.it o visitare le nostre pagine Facebook e Instagram
Riferimenti bibliografici
American Psychiatric Association, (2014). DSM 5 – Criteri Diagnostici. Raffaello Cortina Editore
Bessel A. van der Kolk, M.D. “Approaches to the Treatment of PTSD”, (pdf) https://somaticexperiencing.dk/wp-content/uploads/2017/02/Approaches-to-the-Treatment-of-PTSD-van-der-Kolk-et-al.pdf (consultato in data 20/7/2022)
Cagnoni F., Milanese R., (2009). Cambiare il passato. Superare le esperienze traumatiche con la terapia strategica. Ponte delle Grazie.
Fischer J. (2017). Guarire la frammentazione del sé. Come integrare le parti di sé dissociate dal trauma psicologico. La Feltrinelli ed.
Garrido S., Baker F. A., et al., (2015), Music and trauma: the relationship between music, personality, and coping style, Frontiers in Psychology, 6: 977.
Herbert C., Didonna F., (2021). Capire e superare il trauma. Una guida per comprendere e fronteggiare i traumi psichici. Erickson ed.
Kazanxhi E., Ricci D., Loubser M., (2019) Trauma Integrazione e Movimenti Oculari: Un approccio multisensoriale nella cura del trauma. EMI Italy Edition
Steel K., Boon S., Van de Hart O., (2017). La cura della dissociazione traumatica. Un approccio pratico e integrativo. Mimesis ed.
Van der Kolk B. (2015). Il corpo accusa il colpo. Mente corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Raffaello Cortina Ed.

Psicologa dal 1999 ho scelto di fare del “Danno un Dono” per me e le persone che mi contattano. La mia formazione mi permette di aiutarti a focalizzare obiettivi, strategie e risorse, raggiungendo un Benessere integrato nel minor tempo possibile. Specializzata in Psicologia Alimentare e Mindful Eating, Counseling Preconcezionale, Psicotraumatologia ed Emi Therapy.

Genitori iperprotettivi: quali rischi?
I genitori iperprotettivi vogliono proteggere e prevenire qualsiasi forma di male, dolore e infelicità ai figli.
Potrebbe sembrare un nobile proposito, spinto dall’amore incondizionato per essi, ma dietro a questo si celano risvolti negativi.
Questo eccesso di premura porta infatti i genitori a soccorrere i figli dalle brutte esperienze, dai fallimenti, dal rifiuto dei pari e da qualsiasi forma di delusione. Inoltre, essendo molto attenti a ogni pericolo o rischio che può verificarsi nella vita dei figli, anticipano ogni eventuale difficoltà.
Visto da fuori, un genitore iperprotettivo non è un “cattivo” genitore, anzi i suoi modi sono accoglienti e premurosi. Cercando di rendere la vita più facile al figlio, interviene al primo ostacolo eliminando ogni problema che esso incontra lungo il percorso di crescita. Questo può portare anche a sostituirsi al figlio o addirittura a fare le cose più sgradevoli al posto suo.
Dietro alle cure eccessive del genitore iperprotettivo si nasconde la convinzione che il figlio non possa farcela da solo. Il genitore percepisce come vulnerabile il bambino/ragazzo e finisce per trasmettere questa insicurezza anche al figlio. Spesso questi genitori bilanciano uno scarso senso di controllo delle difficoltà genitoriali con strategie di iper-controllo.
Questa percezione del figlio come fragile impedisce inoltre al genitore di essere autorevole nei suoi confronti, per cui trova improprio punirlo, stabilire delle regole e mantenerle.
Questi genitori hanno la tendenza a giustificare sempre il figlio anche di fronte agli altri e talvolta anche di fronte a comportamenti scorretti. Questi genitori investono molte energie e impegno per il successo del figlio, perché questo qualifica l’immagine del genitore stesso.
I genitori iperprotettivi rappresentano un modello genitoriale dominante nella società italiana degli ultimi anni (Nardone et al. 2012), sebbene la vita attuale appaia molto più sicura di quanto non sia stata in passato.
Tratti distintivi del genitore iperprotettivo
Le preoccupazioni dei genitori iperprotettivi possono riguardare qualsiasi aspetto della vita del figlio: la salute, l’aspetto estetico, l’alimentazione, così come l’istruzione, l’attività sportiva o le amicizie. Ciò che non è direttamente controllabile da loro viene indagato attraverso molte domande rivolte al figlio su cosa fa fuori casa, chi frequenta, come si relazionano gli altri con lui, ecc.
In base all’età dei figli questi genitori possono mettere in atto diversi comportamenti.
In età prescolare tenderanno ad esempio a limitarne l’esplorazione temendo che possano farsi male, oppure accorrono immediatamente dopo una semplice caduta senza danni.
Con i figli in età scolare potrebbero preoccuparsi di organizzare loro lo zaino e i compiti da svolgere, oppure che il figlio sia vestito alla moda e abbia gli stessi giocattoli dei compagni.
In età adolescenziale infine, si assicurerebbe che il figlio sia all’altezza dello status symbol prevalente e per questo non gli farebbero mancare nulla, dal cellulare al motorino alla festa di compleanno nel locale più in.
Questi sono solo alcuni esempi, ma in linea generale i comportamenti dei genitori iperprotettivi seguono questo stile:
- Fa molte domande al figlio per sapere e avere pieno controllo della situazione;
- Di fronte a un problema del figlio cerca di risolverlo in prima persona e a volte se ne assume la responsabilità;
- Cerca di anticipare e prevenire le possibili difficoltà a cui può andare incontro il figlio;
- E’ molto coinvolto nella vita scolastica o sportiva del figlio;
- Limita la sua libertà ed esplorazione;
- Si preoccupa molto dell’immagine che il figlio può mostrare;
- Ricopre il figlio di attenzioni, beni e privilegi;
- Ha molta difficoltà a stabilire delle regole e a farle rispettare con punizioni e correzioni.
I rischi di uno stile iperprotettivo
La peggiore conseguenza dello stile genitoriale iperprotettivo è di crescere figli impreparati alla vita.
Soccorrendo sempre il figlio e gestendo la sua vita gli togliamo il bisogno di sperimentare il rischio e la possibilità di assumersi le responsabilità, perché c’è sempre qualcuno pronto a risolvere i problemi.
Ma c’è dell’altro. Sostituirsi a qualcuno equivale a trasmettere questo messaggio squalificante: “faccio tutto per te perché in fondo tu non sei capace”. Questo può sedimentare insicurezza nella personalità del futuro adulto. Quando un genitore mostra paura nei confronti di molte cose, il figlio a sua volta sarà eccessivamente timoroso e insicuro nell’affrontare il mondo.
Ci sono molti studi che mostrano una correlazione tra l’ipercontrollo parentale e l’insorgenza di disturbi d’ansia, disturbi fobici e ossessivi e sintomi depressivi (Thomasgard, 1998; Chockalingam et al, 2022).
Diffidenza verso gli altri, insicurezza, dipendenza dal sostegno dell’adulto, scarsa autostima e sfiducia sono altri possibili risvolti di questo stile genitoriale.
In adolescenza sono stati riscontrati sintomi somatici, comportamenti devianti e una tendenza a chiudersi o mentire ai genitori per sfuggire al loro ipercontrollo (Janssens et al, 2009).
C’è infine un altro rischio: non far mancare nulla al figlio può far passare l’idea che questi nella vita abbia diritto a tutto per il solo fatto di esistere, piuttosto che impegnarsi per raggiungere dei traguardi. Molti di questi figli finiscono per arrendersi senza combattere, demandando ai genitori le sfide evolutive della transizione all’età adulta.
Consigli per genitori iperprotettivi
Di fronte a tutti questi rischi ci si può chiedere: può il troppo amore fare così tanti danni? In fondo questi genitori sono così premurosi perché pensano di dimostrare in questo modo il loro amore per i figli. Ma come abbiamo visto, a fronte di un fine amorevole, i mezzi sono a discapito del figlio.
Ciò che possiamo fare se ci rendiamo conto di ricoprire di eccessive cure i nostri figli è innanzitutto immaginare che tipo di persona ci aspettiamo diventi un domani. E questo possiamo farlo già dalla tenera età.
Prima di elargire un ennesimo regalo non richiesto, prima di un mancato rimprovero o di un “pronto soccorso” al figlio, chiediamoci se questo comportamento può essere utile in un’ottica futura della sua crescita.
Altre piccole cose che possiamo fare:
- Di fronte a un pericolo, siediti vicino al bambino e spiegagli con calma perché quello che sta facendo è pericoloso. Reazioni esagerate non porterebbero a risultati migliori;
- Informati sulle capacità tipiche dell’età di tuo figlio: se a quell’età può già conquistare autonomia nel fare qualcosa, abbi pazienza che impari a farlo da solo e non sostituirti a lui/lei nel farlo;
- Quando tuo figlio si fa male, conta fino a 10 per vedere come reagisce lui prima di precipitarti;
- Di fronte a una difficoltà, chiedi prima a lui/lei come pensa di affrontarla e superarla;
- Piuttosto che riempire di domande tuo figlio per colmare il tuo bisogno di controllo, chiedigli cosa gli è piaciuto di più di quella giornata o cosa pensa di quella data situazione;
- Aspetta che sia tuo figlio a esprimere un bisogno prima di anticiparlo tu;
- Confrontati con genitori che hanno uno stile genitoriale più rilassato e autorevole.
Infine, ricordiamoci che è normale voler proteggere i nostri figli dalle brutte esperienze, ma avendo sempre presente che le difficoltà sono parte della vita.
Se pensi di non riuscire a gestire da solo questo aspetto dell’essere genitori puoi rivolgerti a un professionista del One Session Center.
Ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 minuti.
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Riferimenti bibliografici
Chockalingam, M., Skinner, K., Melvin, G., & Yap, M. B. (2022). Modifiable Parent Factors Associated with Child and Adolescent School Refusal: A Systematic Review. Child Psychiatry & Human Development, 1-17.
Janssens, K. A., Oldehinkel, A. J., & Rosmalen, J. G. (2009). Parental overprotection predicts the development of functional somatic symptoms in young adolescents. The Journal of pediatrics, 154(6), 918-923.
Nardone, G., Giannotti, E., & Rocchi, R. (2012). Modelli di famiglia. Ponte alle Grazie.
Thomas, G. (1994). Genitori efficaci. Ed. La Meridiana.
Thomasgard, M. (1998). Parental perceptions of child vulnerability, overprotection, and parental psychological characteristics. Child Psychiatry and Human Development, 28(4), 223-240.
Ungar, M. (2009). Overprotective parenting: Helping parents provide children the right amount of risk and responsibility. The American Journal of Family Therapy, 37(3), 258-271.
https://www.canr.msu.edu/news/overprotective_parenting_style (consultato in data 27/06/2022).

Psicologa clinica, mi occupo in particolare di età evolutiva e sostegno alla genitorialità.

Gestire la rabbia con la Terapia a Seduta Singola
Quali difficoltà possono insorgere se non si riesce a gestire la rabbia? In che modo la Terapia a Seduta Singola può venirci in aiuto? Lo scopriamo in questo articolo.
Definizione di rabbia e sue principali caratteristiche
La rabbia fa parte delle emozioni di base primarie (reazione affettive innate) ed è un’emozione universale e primordiale. A provare rabbia sono tutti gli esseri umani senza distinzione di età, di area geografica, di sesso.
Nella classificazione di Friesen ed Ekman la rabbia fa parte dell’elenco delle emozioni primarie: paura, rabbia, gioia, tristezza, disgusto e sorpresa.
Lo stesso nella classificazione di Plutchik dove le emozioni primarie sono: paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto, sorpresa, attesa, approvazione.
La rabbia ha come funzione adattiva quella di difendersi, di sopravvivere nell’ambiente. Essa aiuta l’individuo a mettere dei confini, ad affermarsi, è inoltre spinta all’attacco.
La rabbia come tutte le altre emozioni citate sopra non ha una connotazione negativa, è foriera anche essa di un messaggio che deve essere ascoltato e vissuto nella piena consapevolezza.
Nella vita di tutti i giorni rispondiamo con rabbia per esempio, di fronte ad un torto subito.
In alcuni casi la rabbia può essere espressa poi con dei comportamenti o delle espressioni verbali (urla, discussioni) in altri casi viene invece repressa o evitata.
Ad ogni modo qualunque sia la reazione, porta l’individuo ad uno stato tensivo molto forte.
L’andamento della rabbia si può presentare con dei picchi che tendono verso l’eccesso e a volte con intensità minore. Se l’andamento è verso l’eccesso la rabbia prenderà comunemente il nome di collera ed ira.
Se invece si dirigerà verso una intensità minore si chiamerà irritazione.
La rabbia, è un processo multi componenziale, in cui possiamo individuare almeno quattro componenti imprescindibili.
Esse sono la componente fisiologica, ossia la attivazione dell’organismo, la componente cognitiva, la componente espressiva e la componente comportamentale.
Nella esperienza individuale dello stato di rabbia rintracciamo tutti questi aspetti visibili nella persona: si accelera il battito, aumenta il flusso sanguigno, aumenta la tensione muscolare, aumenta la sensazione di calore e di sudorazione.
A livello espressivo cambia la mimica e la espressione facciale con cambiamenti generici del volto ravvisabili negli occhi, nelle labbra e nelle sopracciglia che cambiano forma, si modifica anche la postura.
Provare rabbia è un’esperienza che riguarda gli altri, ma potrebbe riguardare anche noi stessi, persone emotivamente lontane da noi, o persone a cui si è più legati sentimentalmente come per esempio a propria famiglia e i propri partner.
Dalla rabbia adattiva alla rabbia disadattiva
In linea generale, la rabbia comunica una funzione autodifensiva.
Si può parlare di una rabbia disadattiva, disfunzionale o patologica, quando crea una sofferenza individuale. E’ disattativa anche quando compromette le relazioni sociali o porta a compiere delle azioni dannose verso persone, cose o se stessi.
Nella maggior parte delle situazioni la rabbia è un campanello d’allarme utile per la nostra sopravvivenza. Altre volte può invece portare la persona a un vero e proprio stato di malessere.
In questo caso la rabbia se cronicizzata e non occasionale può portare a un peggioramento delle condizioni di vita della persona.
Questo peggioramento può poi dare sfogo anche a una serie di sintomatologie fisiche e psichiche in cui viene meno la armonia, l’equilibrio e il benessere in generale ed aumenta la inefficacia relazionale e la difficoltà di rapporti nella vita quotidiana.
Le reazioni disadattive alla rabbia sono di diversa tipologia e sono orientate all’evitamento o a un controllo eccessivo, per cui le persone reagiscono tenendo dentro la rabbia o invece esternalizzandola troppo, spesso esternalizzandola in modo inappropriato, mettendo in atto comportamenti o situazioni sconvenienti.
Si deduce che in un caso o nell’altro, sia trattenendo che tirando fuori, le due modalità, portano solo svantaggi. Se la rabbia inoltre permane a lungo non sarà lo stesso un buon segnale per l’individuo.
Cosa fare per la gestione della rabbia
Non saper gestire la rabbia nella maggior parte dei casi significa rischiare di recare danno agli altri e fare male a se stessi, intaccare i rapporti con chi ci circonda, e danneggiarci anche profondamente. Le ricadute della incapacità di gestione che possono verificarsi sono non solo psicologiche, ma anche fisiche. Alcuni studi hanno dimostrato che una situazione di rabbia costante porta a problemi di diversa natura organica come: la digestione, le funzioni epatiche, la muscolatura, i disturbi del sonno, e le emicranie che sono solo un piccolo esempio.
Quando si arriva a uno stato di malessere cronico diventa sicuramente importante rivolgersi a un terapeuta, che possa lavorare al fine di ripristinare un equilibrio nell’individuo.
Le psicoterapie brevi possono lavorare in pochi incontri ed in modo efficace, laddove sono stati fatti tentativi meditativi, pratiche yoga e si sia provato già ad intervenire cercando di allentare abitudini e comportamenti nocivi errati, tutte modalità che non sempre riescono a intervenire in modo risolutivo.
Imparare a gestire la rabbia, migliora il corretto funzionamento organico e psicologico. Con il terapeuta si può lavorare sulla sua gestione, per ripristinare un modo di vivere in cui l’ autocontrollo non ci fa sentire sopraffatti. Vivere in un costante stato di ruminazione rabbiosa cioè ripercorrere gli eventi che hanno generato la rabbia e rimanere in un loop di pensieri per alcuni diventa uno status quo, ma esso è assolutamente negativo per la mente.
Altra situazione invalidante è quando non si può nascondere la rabbia e se essa, inizia a guidarci in ogni azione che compiamo. Quando essa diventa lo stato emotivo prevalente, può portare a senso di colpa e a vergogna, e in alcuni casi a uno stato di isolamento, fino a sfociare in stati di depressione vera e propria.
La terapia a seduta singola per la gestione della rabbia
La domanda che ci poniamo come terapeuti specializzati nella pratica della Terapia a Seduta Singola è come essere efficaci ed efficienti anche in un solo incontro per lavorare sulla rabbia.
Cosa spaventa più una persona nel concetto di provare rabbia? Potrebbe essere provarla a lungo o provarla in diversi contesti. Oppure potrebbe essere non saper tenere a freno la rabbia, o ancora non riuscire a esternarla. Infine potrebbe temere di rovinare i rapporti, le relazioni per un eccesso della stessa.
Come abbiamo potuto osservare la rabbia può essere affrontata e valutata sotto diversi punti di vista, con la TSS diventa l’obiettivo in una singola sessione. Il paziente potrebbe arrivare nello studio con l’idea di voler abbassare la rabbia, di volerla controllare o diminuirla. Come potremmo lavorare?
Lavoreremo indagando le eccezioni al problema e verificando le tentate soluzioni. Esse sono schemi mentali o comportamenti attuati che in realtà perpetuano e fanno sussistere e mantengono in vita il problema.
Il terapeuta potrà decidere di sperimentare con il paziente già in seduta una nuova soluzione oppure dare un compito che poi la persona sperimenterà.
Un esempio sono le lettere della rabbia. Esse sono un potentissimo strumento per scaricare la rabbia.
La fanno fluire fuori con lo scopo di poter vivere poi con una qualità di vita migliore.
Le lettere consistono nello scrivere su un foglio, sino ad esaurimento dell’argomento. Vanno rivolte a chi o a cosa ha generato rabbia senza rileggere e senza controllare la correttezza della scrittura. Le lettere saranno mantenute dal paziente in un posto segreto o potranno essere distrutte in modo simbolico.
Un’altra modalità che si può sperimentare è quella di far elencare al paziente i segnali indici dell’arrivo della rabbia. Il riconoscerli, visualizzarli in forma scritta, prenderne consapevolezza ci dirige già verso una possibile individuazione di condotte più funzionali.
Se il problema è invece legato alla espressione verbale, può essere risolutiva una costruzione di un dialogo diverso ed efficace in cui la comunicazione può funzionare, senza scadere nella rabbia.
Se senti il bisogno di un aiuto professionale, contatta One Session!
Ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 minuti.
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Riferimenti bibliografici
Anolli, L., (2002). Psicologia della comunicazione. Edizione Il Mulino
Cannistrà, F., Piccirilli, F., (2021). Terapia breve centrata sulla soluzione. Principi e Pratiche
Di Donato, F., (2021). Counseling Psicologico- Il quaderno degli attrezzi per Psicologi e Dott. in tecniche psicologiche
D’Urso, V., Trentin, R. (2001). Introduzione alla psicologia delle emozioni. Laterza editore.
Ekman, P. & Oster, H. (1979) Facial Expression of emotion. Animal review of psicology. 20, 527-554.
Nardone, G., Watzlawick, P. (2007). L’arte del cambiamento
Secci, E.M., (2016). Le Tattiche del Cambiamento– Manuale di Psicoterapia Strategica

Sono una Psicologa Laureata all’Universita’ La Sapienza di Roma, iscritta all’albo Psicologi dell’Umbria, Mediatrice familiare, iscritta alla scuola di Specializzazione Icnos, formata in Terapia a seduta singola e in Terapia breve centrata sulla soluzione, mi occupo di consulenze brevi e credo fortemente nel fatto che il cambiamento può avvenire anche in una unica seduta.

Come mettere dei paletti alle richieste degli altri
Nell’articolo di oggi andremo ad analizzare quanto è complicato mettere dei paletti alle richieste altrui, perché è invece importante farlo e come imparare a farlo.
Quanto è complicato riuscire a dire di no?
Quale è il modo giusto, o meglio, c’è un modo giusto per dire di no alle richieste degli altri?
Hai la forza per dire di no alle persone che ti circondano e ti chiedono di fare qualcosa che non vuoi o non è nelle tue corde fare?
Tutte le volte che mettiamo da parte i nostri bisogni e i nostri desideri perché non sappiamo o non riusciamo a farli prevalere sulle richieste o le aspettative degli altri, abbiamo perso.
Tutte le volte che diciamo di si, mettendoci da parte, perdiamo la fiducia in noi stessi. Ci sottovalutiamo e ci costringiamo in situazioni o condizioni che liberamente non avremmo scelto.
Le richieste degli altri possono manifestarsi in tantissimi modi e in contesti diversi.
Il collega o la collega di lavoro che ci chiede, per l’ennesima volta, di aiutarlo a terminare un lavoro. Sa che noi lo faremo, aggiungendo altro carico al nostro impegno e al nostro tempo.
Un amico che ti chiede un altro prestito in denaro, sapendo che avrà difficoltà a restituirlo, perché è finito di nuovo in cattive acque.
Un familiare che continua a chiederti di fare un passo indietro per appianare le liti in famiglia, quando la pace non dipende solo da te.
Il partner che ti impone la presenza di quegli amici che proprio non sopporti.
Il vicino di casa che non riesce a smettere di fare rumori e dare fastidio e, dopo averti chiesto scusa, continua inesorabile.
L’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Quando si è troppo disponibili si rischia di chiudere un occhio tante e tante volte.
Sia chiaro che non è negativo o criticabile essere altruisti e generosi verso gli altri.
Il problema arriva quando le proprie esigenze vengono messe in secondo piano.
Quando i bisogni e i diritti degli altri vengono sopravvalutati; quando la disponibilità diventa obbligo di assecondare le richieste altrui.
Se la reciprocità viene meno e lascia il posto allo sfruttamento, all’opportunismo, all’egoismo.
Perché è difficile dire di no?
Alla base della difficoltà a dire di no possono esserci diverse modalità di interazione e di relazione.
Il desiderio di apparire disponibili in ogni circostanza per dimostrare a se stessi e agli altri di avere un valore. Una “brava persona” capace di dare una mano agli altri sempre. Una risorsa. Un punto di riferimento.
Essere a disposizione incondizionata degli altri significa costruire un’immagine basata più sul fare che sull’essere.
Una modalità di relazione che può nascondere il desiderio di conquistare l’amicizia e la benevolenza degli altri con l’essere al loro servizio. Un modo di essere, risultato di un’educazione improntata alla rigidità e all’obbedienza.
Dire di si incondizionatamente rivela certamente una relazione passiva sia con gli altri che con se stessi. Relazione che può col tempo portare ad accumulare malcontento, rabbia, frustrazione in chi non riesce ad esprimere se stesso e il proprio sentire attraverso un no.
Cadere nella spirale del dire sempre di si, significa essere esposti a richieste che divengono via via più impegnative e creano conflitto tra obiettivi e desideri propri e altrui.
A tendere spesso il tranello peggiore è il grande potere del senso di colpa.
Sul senso di colpa fanno difatti leva le richieste degli altri, a volte insistenti altre volte crescenti. Ci si sente cattivi a dire di no. Il si è quasi dovuto.
Identificare il senso di colpa ci permette di depotenziarlo e di agire in maniera più libera e orientata alla costruzione di rapporti sereni e bilanciati.
L’obiettivo è puntare alla reciprocità.
Come imparare a dire di no
Dire di si è sicuramente più facile che dire no.
Il no fa emergere il conflitto, la vergogna, la colpa.
Il no però fa emergere anche i nostri bisogni, il nostro essere diversi dagli altri, la nostra individualità.
Imparare a dire di no significa imparare a mettere dei limiti.
Mettere dei limiti per rispettare noi stessi. Il nostro spazio, il nostro tempo, le nostre necessità.
Pretendere dagli altri il rispetto dei nostri limiti implica innanzitutto che siamo noi per primi a rispettare ciò che siamo e vogliamo.
Definire l’obiettivo è il primo passo per riconoscere ciò verso cui tendiamo e di conseguenza le richieste alle quali dire di no.
Prendere del tempo per riflettere e definire se la situazione alla quale siamo chiamati contribuisce al nostro benessere oppure no.
Si può dire di no. Dire di no è un nostro diritto. Possiamo scegliere di motivarlo in maniera semplice e diretta oppure pronunciarlo in modo secco e rispettoso.
Imparare a mettere dei paletti alle richieste degli altri significa muoversi nella direzione che desideriamo, la nostra direzione!
Non esitare a cercare qualcuno capace di guidarti alla scoperta del tuo futuro desiderato.
Non esitare a contattare un esperto capace di accompagnarti nel tuo viaggio.
Il cambiamento ti aspetta.
Ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 Minuti.
Per maggiori informazioni, puoi inviare una email a info@onesession.it o visitare le nostre pagine Facebook e Instagram
Riferimenti bibliografici
Cannistrà F., Piccirilli F. (2021) – Terapia Breve Centrata sulla Soluzione –Roma: EPC Editore

Psicologa, Mediatrice Familiare, Esperta in Scienze Forensi

Convivere con una malattia cronica
Si definisce una malattia cronica una patologia che, pur non essendo guaribile, non ha un immediato esito mortale.
Secondo una recente indagine dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia i pazienti che convivono con almeno una malattia cronica superano i 14 milioni.
Una condizione tutt’altro che rara, spesso sottovalutata, che ha importanti conseguenze sia sulla qualità della vita che sui rischi per la salute dei pazienti.
La diagnosi di una malattia cronica
La diagnosi di una malattia cronica sconvolge la vita di chi la riceve.
La persona si trova catapultata in una nuova dimensione in cui tutto quello che prima era semplice o addirittura scontato, ora sembra incredibilmente difficile se non impossibile.
Inizia così un lungo e faticoso cammino di ristrutturazione di sé.
La persona deve improvvisamente reindirizzare le proprie risorse e sviluppare nuove capacità adattive per riuscire ad affrontare in maniera positiva gli inevitabili cambiamenti e le intollerabili ricadute che ci saranno.
Il primo passo obbligato è ovviamente quello di accettare la malattia.
Una consapevolezza tutt’altro che semplice da raggiungere, in grado di destabilizzare profondamente l’individuo.
La domanda “Perché proprio a me?”, che tutti i pazienti si fanno, pone la persona di fronte ai propri limiti e spesso comporta reazioni di rabbia o depressione.
Superare lo shock iniziale e riconoscere la propria condizione come parte tangibile ed effettiva della propria realtà è l’ideale punto di partenza da raggiungere.
Da qui ci si muove per riuscire ad incanalare le proprie energie, mettere a frutto le proprie risorse e accettare i limiti di questa nuova dimensione.
Inizia la convivenza con la malattia cronica.
La convivenza con una malattia cronica
Convivere con una malattia cronica vuol dire non poter condurre una vita del tutto normale.
Significa percepire nettamente i propri limiti di fronte a determinate situazioni.
Spesso significa anche assumere farmaci, seguire terapie specifiche e, cosa ancor più estenuante, sottoporsi a controlli medici continui e ripetuti.
L’aspetto più invalidante di questa condizione, tuttavia, è avere la consapevolezza di essere costantemente a rischio.
Questo genera una sensazione continua di precarietà e di incertezza rispetto al presente e al futuro. Sensazione che si ripercuote sul benessere psichico della persona che, spesso, vive male questa condizione e tende ad isolarsi e ad essere isolato.
Soccombere al senso di sconfitta ed impotenza che ne scaturiscono diventa così davvero molto facile.
È proprio in questo modo che avere una malattia cronica mette in discussione il senso stesso che si dà alla vita.
Per fare fronte a questo occorre che la persona riscopra le proprie ragioni e le proprie motivazioni, trovando in sé stessa la forza di lottare e impegnarsi nella propria quotidianità.
Solo questa consapevolezza le permetterà di riprendere in mano la sua vita e generare vissuti di realizzazione e speranza.
Come riuscire a convivere con una malattia cronica
La malattia cronica impone cambiamenti fisici progressivi e duraturi che, per essere affrontati adeguatamente, hanno bisogno di un importante sostegno psicologico.
L’obiettivo è avere il giusto supporto per riscoprirsi ed adattarsi alla nuova realtà, fino a raggiungere una condizione di equilibrio personale.
Un equilibrio che permetterà di affrontare con successo la malattia, vivendo un’esperienza che, anziché sfinire e annientare, sarà in grado di arricchire la persona e chi ha intorno.
Accettare la nuova realtà, ristrutturare le proprie risorse e ridefinire il senso della propria vita sono gli step fondamentali in grado di portare la persona a ridisegnare la propria identità.
Sarà questa consapevolezza di sé che impedirà allora alla persona di essere inglobata nella condizione di “malato”, quindi bisognoso e privo di una funzione sociale, e creerà un circolo virtuoso in cui i compromessi e le rinunce, a cui dovrà necessariamente giungere, daranno invece spessore alla persona e saranno un valore aggiunto di ciò che fa.
Innescare questo flusso di pensieri positivi e mantenerlo costante è un impegno continuo e stancante, ma rappresenta la strategia migliore per vivere in maniera vincente una condizione così destabilizzante ed invalidante come la malattia cronica.
Viene da sé che solo un profondo percorso di maturazione e crescita personale, insieme al supporto dei propri cari, può portare ad una consapevolezza tale da riuscire in questa impresa.
Un malato è una persona che ha ancora molto da fare e realizzare.
La malattia nasconde solo le risorse e le capacità che possiede.
Raggiungere queste consapevolezze permetterà alla persona e a chi ha vicino di convivere in maniera positiva con la propria condizione.
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I nostri psicologi e psicoterapeuti sono disponibili ogni martedì dalle 18.00 alle 20.00, per una consulenza gratuita online.
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Riferimenti bibliografici
https://www.ospedalebambinogesu.it/cosa-significa-convivere-con-una-malattia-reumatologica-cronica-78144/ (consultato in data 15/04/2022).
https://www.alomar.it/ (consultato in data 15/04/2022)
https://www.inran.it/2022/02/21/convivere-con-una-malattia-cronica-in-italia/amp/ (consultato in data 15/04/2022)
https://www.medicitalia.it (consultato in data 15/04/2022)


3 Strategie per iniziare ad avere un rapporto sereno con il proprio corpo
Cosa vuol dire per te avere un buon rapporto con il tuo corpo?
Sai, ognuno di noi attribuisce un significato diverso e quindi ti invito prima di tutto a chiederti quale sia il tuo.
Immagino che prima di ogni cosa hai pensato al tuo aspetto fisico:
sono magro o grasso? Alto o basso? Muscolo o secco? Proporzionato o secco?
Sono tante le etichette che ci appiccichiamo addosso in questi casi e per ognuna facciamo una stima rispetto ai canoni socialmente apprezzati.
Spesso non ci rientri, eh?
Beh, è normale.
Ma quell’aspetto fisico dipende dal tuo rapporto con il cibo e dall’attività fisica che fai, oltre a tutte le cure che riservi al tuo corpo per “tenerlo in salute”
Si tratta di una relazione lunga una vita: è infatti un processo in costante evoluzione e sei libero di modificarlo come più ti aggrada ma attento …”all’accanimento terapeutico”.
Vediamo alcune punti utili su cui puoi iniziare a lavorare per muovere i primi passi verso la costruzioni di un rapporto con il tuo corpo.
L’immagine corporea e il cibo
Il cibo è la fonte di primaria preoccupazione verso la propria immagine corporea. Puoi avere un rapporto con il cibo complicato o altalenante che ti porta a perdere o prendere peso con facilità.
Non trovi mai la quadra della situazione e questo spesso ti innervosisce, ti preoccupa o ti fa sentire in ansia e come conseguenza, mangi di più.
Infatti immagino che dopo aver mangiato, ti sentirai in colpa. E questo a volte non sufficiente per smettere soprattutto quando il cibo da sollievo: infatti se provi ansia e mangi, il cibo riduce realmente l’ansia perché rilascia la serotonina (presente per esempio nei carboidrati o negli zuccheri) che è definito come l’ormone del buonumore.
Ma che succede poi? Che la sensazione positiva induce a mangiare ancora e contemporaneamente ad ingrassare fino a non piacersi più: a questo punto senso di colpa e ansia innescano nuovamente il circolo vizioso che se non stoppato causa problemi fisici.
Insomma, si può creare una vera e propria “dipendenza affettiva” dal cibo che diventa una valvola di sfogo.
Come puoi imparare a gestire questo rapporto conflittuale?
- Fantastica sul cibo:
E’ un esercizio che puoi svolgere al mattino e richiede la tua capacità immaginativa.
Pensa, ogni mattina al cibo che ti piace di più e a dove vorresti mangiarlo nel modo più rilassato possibile. Fantastica su di lui, su cosa proveresti, le sensazioni che ti assalirebbero… Chiudi gli occhi e immaginalo, fatti venire l’acquolina in bocca.
- Stai attento al COME:
come mangi? Ci hai fatto caso? Magari sei frettoloso, oppure con il cellulare in mano, o neanche ti rendi conto di quello che hai nel piatto. FACCI CASO.
Sei quello che mangi e il modo in cui assimili il cibo dipende date: ti è mai successo di mangiare di corsa e avere il cibo “sullo stomaco”? O di avere ancora fame, nonostante avessi già mangiato? Oppure la nausea? Migliora il modo in cui mangi, assaporando ogni boccone, masticandolo bene e lentamente, possibilmente lontano da apparecchi elettronici.
- Fai una lista:
Ogni mattina ti alzi e scrivi una rapida lista pensando: “se oggi volessi peggiorare le mie abitudini alimentari, cosa dovrei fare?”
Fai una lista con tutti i comportamenti che ti vengono in mente come “mangiare schifezze”, “mangiare più del solito” e cosi via.
A fine giornata riprendi la lista e sbarri i comportamenti che hai messo in atto.
Dal rapporto con il cibo possono nascere molti dei disturbi alimentari noti come anoressia o bulimia e anche problematiche meno gravi ma comunque spiacevoli che pesano sulla vita sociale e personale.
Quanto ti valuti da 0 a 10 nel rapporto con il tuo corpo?
Sicuramente valutare il proprio corpo non è semplice: è un processo che oscilla costantemente, tra alti e bassi.
Da cosa dipende tutto questo? Da tre processi fondamentali:
- Il confronto con gli altri: ti valuti confrontando il tuo corpo con altri come te e da questo confronto fai una valutazione positiva o negativa
- Giudizio degli altri: “cosa dicono di te? “ l’opinione che hanno gli altri su di te, definiscono chi sei (Mario pensa che sono troppo magro. Giulia dice che ho preso qualche chilo.)
- Autosservazione: sei tu che valuti il tuo corpo e ciò che c’è di diverso tra te e gli altr
Ti svelo un segreto: è scorretto dire che hai una bassa o un alta autostima verso il coprpo; sarebbe più giusto chiedersi se lo svaluti o lo sopravvaluti.
Se lo svaluti, pensi di non essere mai all’altezza rispetto agli altri, ti senti inadeguato e spesso eviti di agire per modificare ciò che non ti piace.
Al contrario se ti sopravvaluti, sei sicuro, determinato e non ti spaventa il confronto con gli altri; ogni sfida ti consente di dimostrarti quanto vali e ti piaci.
Cosa puoi fare per accrescere la tua autostima verso il tuo corpo?
- Evitare di evitare:
Proprio perché hai una bassa autostima, hai scarsa fiducia in te stesso. E’ probabile che tu non ti senta all’altezza di alcune situazioni e preferisci evitare di affrontarle.
Pensaci! Chiediti se e quando hai deciso di rinunciare a qualcosa perché pensavi di non essere in grado.
Questo è proprio ciò che mantiene il problema: più eviti e più confermi a te stesso di non essere in grado di affrontare la situazione e che al contempo la situazione è in effetti pericolosa.
SMETTI DI EVITARE!
- Stop alle rassicurazioni:
chiedere costantemente rassicurazioni o conferme ad altre persone, se allevia il tuo animo sul momento, a lungo andare non risolve il problema. E’ una trappola che potrebbe portare lentamente alla ricerca spasmodica della perfezione e al contempo alla conferma che tu hai bisogno degli altri per “valere”.
Se pensi di aver bisogno di un supporto in più, puoi rivolgerti a un professionista.
La Terapia a Seduta Singola può aiutarti anche in un solo incontro con lo psicologo perché ti permette di eliminare i comportamenti che mantengono in vita il problema e ottenere concreti benefici.
Sei interessato alla Terapia a Seduta Singola? Puoi rivolgerti ai nostri psicologi e psicoterapeuti, disponibili ogni martedì dalle 18.00 alle 20.00, per una consulenza gratuita online.
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Riferimenti bibliografici
Nardone, G (2007) La Dieta Paradossale: sciogliere i blocchi psicologici che impediscono di dimagrire e mantenersi in forma, Ponte delle Grazie.
Nardone, G. (2013). Psicotrappole. Milano: Adriano Salani.

Sono una psicologa che si occupa di consulenze brevi e di TSS: il mio obiettivo è ridurre i tempi della terapia e massimizzare l’efficacia della seduta, offrendo un sostegno focalizzato e concreto per affrontare sia le piccole che le grandi difficoltà della vita

Come sopravvivere ad un ambiente di lavoro stressante
“Molti perdono il lavoro, e molti perdono, lavorando, la vita.”
Eduardo Galeano
Che cosa si intende per “ambiente di lavoro stressante”?
Il termine stress deriva da un vocabolo della lingua inglese che identificava la tensione e lo sforzo a cui era sottoposto un ponte nel momento di transito di un veicolo.
Viene comunemente utilizzato per descrivere una “mobilitazione straordinaria” di energie fisiche e psicologiche che siamo chiamati a mettere in campo di fronte a particolari eventi di vita.
Per anni si è considerata la persona come “passiva” rispetto a questi stimoli, che venivano quindi sempre connotati come dannosi.
Successivamente si è iniziato a ritenere che la nostra percezione degli eventi sia invece costruttiva, cioè frutto dell’incontro delle nostre caratteristiche psicologiche, sociali, culturali e dei significati che diamo al mondo che ci circonda.
In quest’ottica, quindi, uno stesso evento può essere considerato nocivo o benefico a seconda di chi lo vive.
Possiamo quindi parlare di “eustress” quando per affrontare qualcosa sperimentiamo uno sforzo di breve durata, focalizzato e funzionale per il raggiungimento del nostro obiettivo (es. la tensione prima di una gara che poi ci consente di performare al meglio).
Chiamiamo invece “distress” il sovraccarico negativo prolungato nel tempo che alla lunga ci fa sentire prosciugati di tutte le nostre energie.
Un lavoro “stressante” quindi, per ciascuno di noi potrebbe avere un significato molto differente e non è detto che abbia solo risvolti negativi.
Il primo passo quindi per capire come fare a sopravvivere ad un ambiente di lavoro stressante, è identificare qual è il tuo contesto, gli eventi di “eustress” e “distress” e quali azioni puoi attuare per potenziare le tue capacità di far fronte a questi ultimi.
Come si manifesta l’eccessivo stress sul lavoro?
Quando una persona sente che alcune richieste poste dal suo lavoro sono superiori alle sue capacità di farvi fronte e prolungate nel tempo, può iniziare un processo di affaticamento fisico e mentale.
Si possono provare sintomi sgradevoli, come mal di testa, tensione addominale e intestinale, riduzione delle proprie capacità cognitive (es. memoria, concentrazione…).
In aggiunta, si può provare un peggioramento del proprio tono dell’umore e di tutte le emozioni legate al proprio lavoro, che da positive diventano negative.
Questo solitamente comporta un crollo del proprio rendimento e motivazione, che peggiora ulteriormente la situazione.
Se hai mai provato quella sgradevole sensazione di un pugno nello stomaco alla sola idea che arrivi il Lunedì mattina (o il tuo giorno di lavoro), capisci di cosa sto parlando.
Quali conseguenze può avere un ambiente di lavoro eccessivamente stressante?
Alcune persone senza rendersene neanche conto, finiscono per farsi risucchiare dal proprio lavoro.
Si ha talmente tanto il desiderio di farcela a gestire tutto, da provare a fronteggiare attivamente il problema lavorando sempre di più.
Se inizialmente questa può sembrare la strategia migliore, alla lunga è probabile che ci sentiremo peggio di prima: dedicheremo più ore di tempo al lavoro, sottraendolo a ciò che per noi è davvero importante.
Ci affaticheremo ancora di più, fino ad arrivare a casa la sera senza neanche la forza di cucinare. Inizieremo ad alterare la qualità della nostra vita, mangiando e dormendo male. Questo ci provocherà un ulteriore calo di energia, che ci farà sentire ancora più inadeguati a gestire il nostro lavoro. E così via.
Un’altra possibile conseguenza, è quella di chiudersi in se stessi a pensare ripetutamente a quanto il proprio lavoro sia un incubo. Cadiamo così in un vortice di domande senza fine che finisce per risucchiarci.
Questo nella speranza di trovare delle risposte: “ho fatto bene ad accettare questo lavoro o sarebbe stato meglio non farlo? come farò ad affrontare la giornata di domani? cosa succederà se sbaglierò quell’incarico che mi è stato dato?…”.
Il vortice di pensieri prende il via proprio in quei pochi momenti di tempo libero in cui potremmo fare/pensare ad altro. Magari giusto quando siamo seduti sul divano o in procinto di andare a dormire.
Se all’inizio pensare e ripensare al nostro lavoro potrebbe darci l’impressione che a suon di domande risolveremo qualcosa, alla lunga questo potrebbe diventare un altro problema da risolvere. Questo perché provare a controllare l’incontrollabile è una battaglia persa in partenza.
Come uscirne?
Se ti sei ritrovato in questo articolo, fai un bel respiro e prosegui nella lettura. La buona notizia è che da questo vortice insieme, si può uscire. La Terapia a Seduta Singola può aiutarti fin dal primo incontro a vedere le cose da un altro punto di vista e a individuare delle nuove strategie applicabili da subito per migliorare il tuo rapporto con il tuo lavoro. Vediamo insieme alcuni piccoli passi possibili:
1. Ritrova il tuo spazio.
Prova a pensare che il lavoro non è tutta la tua vita, ma è ciò che ti serve per poterti permettere la tua vera vita, quella fatta dai tuoi affetti, interessi, hobby, passioni. Ogni mattina quindi, prima di uscire di casa, prova a scrivere sulla tua agenda anche i tuoi obiettivi ed impegni personali oltre a quelli lavorativi. Inizia focalizzandoti su una piccola cosa al giorno che potresti fare, per farti dire che ti sei preso un po’di spazio per te oltre il lavoro. Ad esempio potrebbe essere fare un bel bagno caldo, andare a correre o vedere una puntata di una serie tv che ti piace tanto. Cerca quindi di tenere bene a mente questo obiettivo per tutto il giorno e impegnati, una volta finito il lavoro, a raggiungerlo. Ti aiuterà a riprenderti gradualmente il tuo tempo per te.
2. Mettiti comodo.
Se ti senti a disagio nel tuo posto di lavoro, prova a riorganizzare il tuo spazio in modo che sia più funzionale e confortevole per te, partendo dalle cose semplici: fai scorta di acqua e snack salutari per le tue pause, ordina i materiali di cancelleria di cui hai bisogno, scegli una sedia comoda, usa delle cuffie avvolgenti per isolarti dai rumori… “Sentirti a casa” ti farà già sentire meglio.
3. Organizzati
Se sei affogato di cose da fare, prova a utilizzare le “to do list”. Scrivi su un blocco di carta in ordine di priorità e complessità i tuoi compiti. Definisci quelli da fare oggi e quelli che puoi rimandare a domani. Vedere nero su bianco gli impegni può aiutarti a fare ordine nei tuoi
pensieri e a procedere per priorità. Ogni volta che ne completi uno, depennalo dalla lista. Quando hai completato tutto, strappa il foglio e lancialo nel cestino. Ti sorprenderà vedere con i tuoi occhi quanto sai essere produttivo durante il giorno quando hai tutto sotto controllo. Se fai canestro nel cestino, ti strapperà anche un sorriso!
4. Se affoghi nel vortice di domande, prova a non rispondere
Quando ti rendi conto che arrovellarti con dubbi e interrogativi ti fa stare peggio invece di aiutarti a trovare una soluzione, puoi provare a non rispondere alle domande che hai in testa. Per aiutarti, puoi provare a prendere un bel respiro profondo: prova poi a immaginare che i tuoi pensieri siano come nuvole nel cielo blu. Osservali andare e venire senza tuttavia inseguirli, senza rispondere loro. Così facendo, ti sorprenderai a guardare di nuovo il sole, piuttosto che le nuvole.
E se questo non bastasse? Ti ricordo che puoi sempre chiedere un incontro agli psicologi di “One session” e prenotare una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola per capire come poter affrontare il tuo ambiente di lavoro stressante. Questo può essere un primo passo per ritagliarti uno spazio di 30 minuti solo per te, il Martedì dalle 18:00 alle 20:00.
Per prendere appuntamento, scrivi a info@onesession.it o alle nostre pagine Facebook e Instagram.
Riferimenti bibliografici:
Nardone, G., De Santis, G. (2011). Cogito ergo soffro. Milano: Ponte alle Grazie.
Pirotta, L. (2019). Come Combattere lo Stress: Impara a gestire lo stress da lavoro e nella vita privata e a raggiungere il benessere psico-fisico. Palermo: Dario Flaccovio Editore srl.
Solano, L. (2001). Tra mente e corpo. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Sono una Psicologa iscritta all’Albo A degli Psicologi del Lazio e all’Istituto ICNOS: Scuola di Psicoterapie Brevi Sistemico-Strategiche.
Nel mio lavoro integro le mie competenze multidisciplinari per offrire ai miei clienti soluzioni personalizzate ed aiutarli a raggiungere i propri obiettivi in tempi brevi. Utilizzo la TSS per ottenere il massimo da ogni singolo incontro.

Come ritrovare la motivazione
Oggi parliamo di motivazione.
Cos’è la motivazione? E’ possibile ritrovare la motivazione? E come?
La Motivazione: etimologia e teorie
Il termine motivazione dal punto di vista etimologico deriva dal latino “motus” movimento e “agere” spinta all’azione.
La motivazione è lo stato interiore che orienta l’organismo, attiva il nostro comportamento e direziona l’uomo verso un obiettivo.
In questa semplice definizione la motivazione viene descritta come il nostro carburante e allo stesso tempo l’essenza che ci fa andare avanti e tendere al raggiungimento di un obiettivo e al perseguimento di uno scopo.
Il costrutto psicologico della motivazione non è un costrutto semplice, pertanto sono state prodotte innumerevoli teorie in psicologia e lo stato motivazione può essere analizzato secondo livelli di complessità diversi.
Per semplificare estremamente mi limiterò solo ad esplicitare la distinzione tra motivazione primaria e secondaria e tra motivazione intrinseca ed estrinseca.
Le motivazioni primarie sono basilari per la sopravvivenza dell’individuo e sono dovute a meccanismi fisiologici, quelle secondarie non sono legate a dimensioni biologiche ma a dei meccanismi psicologici.
La motivazione intrinseca è determinata da cause interne e la motivazione estrinseca da cause esterne.
Per cause esterne si intendono fattori esterni all’individuo pensiamo per esempio alle ricompense, ai premi, ai fattori sociali, comunque dipendenti dall’ambiente.
Per cause interne ci riferiamo ai bisogni dell’individuo come i desideri, le passioni, i piaceri.
Perché è fondamentale avere motivazione?
Se la motivazione è il carburante della nostra vita, se è la spinta propulsiva all’azione capiamo che perderla ha un effetto bloccante sul nostro agire quotidiano.
Se sei motivato impiegherai più energie, affronterai i tuoi impegni che siano scolastici o lavorativi con grinta e determinazione.
A tutti può però succedere di avere una battuta d’arresto, passare un periodo pesante, sentirsi svuotati e passare situazioni difficili.
La stanchezza e lo stress incidono fortemente sul nostro livello di motivazione.
Come ritrovare la motivazione?
Con un percorso di terapia breve e anche con una sola seduta con ad esempio la Terapia a Seduta Singola si può lavorare per ricostruire un atteggiamento positivo, imparare ad abbandonare o modificare quegli atteggiamenti che vengono messi in atto inconsapevolmente e che stanno portando ad una situazione di stallo.
E’ possibile ristrutturare i nostri pensieri e rimodulare gli obiettivi e gestire diversamente l’ansia, la preoccupazione e la stanchezza ponendo attenzione sulle proprie risorse con un nuovo mindset.
Vorresti lavorare sulla motivazione? Ti trovi in un momento difficile in cui hai la sensazione di essere imprigionato? La tua performance e il tuo rendimento non sono quelli che vorresti avere o che hai sempre avuto? Vuoi ottenere un cambiamento?
Chiedi aiuto a One Session.
One Session è il nostro servizio di ascolto psicologico attivo il martedì dalle 18.00 alle 20.00,
Ti aiuteremo fornendoti strumenti e tecniche che ti permetteranno di rimetterti in gioco e sbloccare comportamenti non funzionali al tuo benessere.
Scrivi a info@onesession.it e consulta le nostre pagine social di Facebook e di Instagram.

Sono una Psicologa Laureata all’Universita’ La Sapienza di Roma, iscritta all’albo Psicologi dell’Umbria, Mediatrice familiare, iscritta alla scuola di Specializzazione Icnos, formata in Terapia a seduta singola e in Terapia breve centrata sulla soluzione, mi occupo di consulenze brevi e credo fortemente nel fatto che il cambiamento può avvenire anche in una unica seduta.

Insonnia: 3 consigli per superarla
Di insonnia soffre una grande fetta di Italiani. Secondo uno studio condotto nel 2019 un italiano su 7 dorme male, e 3 su 10 dormono poco.
Quando parliamo d’insonnia?
Secondo il DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico per i Disturbi Mentali), l’insonnia è caratterizzata da una soggettiva insoddisfazione rispetto la quantità o qualità del sonno.
L’insonnia può riguardare diverse fasi del ciclo del sonno. Si può avere un insonnia iniziale, con difficoltà all’addormentamento. Altri soffrono di insonnia centrale, cioè la difficoltà a mantenere il sonno. Altri ancora vengono disturbati dall’insonnia tardiva, che si manifesta con risveglio precoce e incapacità di riaddormentarsi.
Quali sono le conseguenze dell’insonnia?
Una cattiva qualità e quantità del sonno produce inevitabilmente una serie di conseguenze nella quotidianità della persona.
Chi soffre di insonnia avrà frequenti preoccupazioni rispetto relative al proprio sonno, che generalmente aumentano nelle ore serali. La persona ha paura di passare un’ulteriore notte in bianco e questo pensiero sarà fonte di ansia e stress.
La scarsa qualità e quantità del sonno, inoltre, renderà chi soffre di insonnia piuttosto irritabile. Ecco che quindi ne risentiranno anche i rapporti interpersonali, oltre che la propria soddisfazione personale.
Un’altra conseguenza dell’insonnia si potrebbe verificare anche a livello fisico. Forti mal di testa, sintomi gastrointestinali e formicolii tengono frequentemente compagnia a chi dorme male.
Ultimo ma non ultimo, le capacità attentive e di concentrazione si riducono. Questo avrà un effetto negativo sul rendimento delle varie aree di vita della persona.
Perché per quanto mi sforzo l’insonnia non mi abbandona?
Chi soffre di insonnia generalmente mette in atto una serie di tentativi per riuscire a dormire, che purtroppo spesso si rivelano controproducenti. Il fatto di non ottenere risultati attraverso questi tentativi, poi, aumenta il senso di frustrazione e stress.
Il primo tentativo è quello di sforzarsi di addormentarsi. Peccato che però il sonno sia un’attività spontanea che prescinde dalla nostra volontà. Cercare di rendere volontario un gesto che è spontaneo non farà altro che togliere spontaneità all’addormentamento. I nostri tentativi non faranno altro che rendere sempre più difficile addormentarsi.
Un altro tentativo controproducente è quello di rimanere a letto pur non avendo sonno, anche quando ormai si è svegli. L’errore di questo tentativo sta nel fatto che, reiterando questo comportamento, il nostro cervello non sarà più abituato ad associare il letto alla sola attività del dormire. A lungo andare quindi verrà sovvertita l’associazione letto – sonno. Il letto, per il nostro cervello, diventerà luogo di svolgimento di diverse attività, come il leggere o guardare film.
3 consigli per superare l’insonnia
Partendo dai tentativi controproducenti spiegati poco sopra, vediamo quali possono essere 3 buone abitudini per riuscire ad alzare la propria qualità e quantità di sonno.
- Coricati a letto solo quando senti sonno. Riprendi ad utilizzare il letto solo per il dormire. Questo aiuterà il tuo cervello a ricostruire il collegamento tra il luogo letto e l’attività dormire.
- Se non riesci ad addormentarti, non rimanere a letto. Sappiamo che sei stanco, che dormire è una necessità, che non ne puoi più delle notti insonni. Ma rimanere a letto anche quando non riesci a dormire non ti aiuterà. Ti può aiutare, invece, spostarti in un altro luogo della casa e dedicarti ad un’altra attività, come la lettura. Finché non senti che il sonno sta tornando. Quello è il momento per tornare a letto. Ma se, una volta tornato a letto ti rendi conto che ancora non riesci ad addormentarti, ripeti quanto appena fatto. Alzati, dedicati ad altro, e solo quando torna il sonno coricati.
- A prescindere da quanto hai dormito, mantieni la sveglia allo stesso orario. Non cercare di compensare il mancato sonno notturno ritardando la sveglia o con dei riposi durante il giorno. Questa compensazione in realtà non farà altro che ripercuotersi alla sera, quando difficilmente sarai in grado di addormentarti.
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Riferimenti Bibliografici:
https://www.lostudiodellopsicologo.it/disturbi/soffrire-insonnia/ (consultato in data 05/11/2021)
https://www.iss.it/news/-/asset_publisher/gJ3hFqMQsykM/content/come-dormono-gli-italiani-uno-su-sette-dorme-male-e-tre-su-10-dormono-poco (consultato in data 05/11/2021)

Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.