
Come migliorare l’intesa con il partner e riaccendere la passione
L’intesa sessuale è la cartina al tornasole della coppia.
Dalle vicende che accadono in camera da letto (o sulla lavatrice, perché no?) si può monitorare il suo stato di salute e prosperità.
Purtroppo non è raro constatare quanto la passione erotica risenta dei momenti di stanchezza o difficoltà sperimentati nella vita quotidiana. E accade che coppie ben affiatate si ritrovino una temperatura “tiepidina” sotto le lenzuola.
La carenza di passione può essere la grigia anticamera al corridoio che porta alla separazione, ma ci sono altre porte che si possono aprire.
Come tutti i momenti di crisi, la diminuzione dell’eros può essere usata per riaccendere l’intesa e rinvigorire l’energia e la passione al cammino comune.
In termini di sviluppo evolutivo, saper custodire e promuovere rinnovate forme di intesa sessuale è uno dei compiti di sviluppo propri della coppia stabile.
L’intesa sessuale nella coppia stabile
“L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta.”
(Tomasi di Lampedusa)
Questa citazione colta del Gattopardo fa eco alle tante battute popolari rassegnate alla morte del desiderio nei rapporti che vogliano durare a lungo.
Ma non è detto che del fuoco iniziale debba rimanere solo la cenere.
L’intesa sessuale è la centrale termica dell’edificio della coppia. Si può mantenerne la fiamma sempre viva, rimuovendo la cenere in eccesso che rischia di soffocarla e aggiungendo legna opportunamente.
L’alimento della passione erotica va ricercata nell’ambito della relazione a 360° tra i partner.
Una ricerca svolta dall’Interdisciplinary Center in Herzliya, Israele, pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology, ha analizzato coppie di lunga durata. Lo scopo era di evidenziare se ci fossero elementi relazionali in grado di migliorarne la passione erotica.
E’ emerso che l’intesa e il desiderio sessuale in un partner aumentavano in seguito alla messa in atto quotidiana di comportamenti sensibili e ricettivi dell’altro partner nei propri confronti.
L’incremento era maggiore quando questi specifici atteggiamenti comunicavano il giudizio di essere persone di valore e permettevano di sperimentare l’appartenenza ad una relazione speciale.
Atteggiamenti propri di coloro che sanno di vivere una storia d’amore e riescono a comunicarlo.
Passione erotica e routine
Il desiderio sessuale non è influenzato solo da questioni di coppia. E una funzione della persona che risente del contesto di vita generale e della tappa evolutiva che si sta attraversando.
Sia gli uomini che le donne nei diversi eventi di vita (ad es. matrimonio, gravidanza, menopausa, licenziamenti, promozioni, pensionamento, malattie, lutti, ecc.) sperimentano una oscillazione dell’intensità del desiderio. Anche lo stress legato alla vita lavorativa, familiare e sociale incide fortemente sulla passione.
Può accadere che l’intesa sessuale di coppia, specie se datata, diminuisca o svanisca del tutto a causa di una minore intimità tra i partner. La conseguente minore comunicazione, a causa degli impegni e delle responsabilità quotidiane rischia di sottrarre l’investimento di tempo ed energie dalla sfera sessuale.
Riaccendere la passione
“Nel grande amore erotico non si cercano e si uniscono solo i corpi, si cercano e si completano anche le intelligenze.” Francesco Alberoni
Quale legna aggiungere per alimentare la passione erotica di coppia specie se di lunga durata? Vediamo 5 possibili azioni.
1. Iniziare con il parlare
Può sembrare banale, ma una delle differenze più marcate tra la coppia di nuova formazione e quella datata è proprio la quantità di tempo e spazio dedicato allo scambio reciproco di ascolto e attenzione.
Parlate del calo del desiderio, dei dubbi, delle preoccupazioni.
Magari parlandone potrete scoprire che il partner si sente come voi e vi potrete sentire più complici e intimi.
2. La seduzione passa dal corpo, dagli sguardi e dagli atteggiamenti
Sono essi a comunicare, oltre le parole, la propria attenzione al valore della presenza dell’altro mentre si segnala anche quanto sia importante conquistare a propria volta la sua.
Il riaffermare coi gesti e gli atteggiamenti (e il tipo di vestito o di linguaggio) quanto si ritiene desiderabile l’altro, è forse il combustibile più efficace per riaccendere la fucina della passione.
3. Prendersi il giusto tempo
Un contatto sereno e consapevole con il proprio corpo è la base necessaria per una altrettanto consapevole apertura all’altro e alle sue esigenze.
Ricentrarsi in termini di tempi da dedicare a sé (sport, alimentazione e svaghi ma anche autoerotismo) permette di alimentare il bacino di riserve energetiche da riversare poi nella vita di coppia.
Solo da un’adeguata cura della propria soddisfazione personale può scaturire la creatività e la motivazione alla ricerca attiva di spazi comuni.
4. Favorire l’intimità
Se si considera l’intesa di coppia importante e significativa per l’espressione personale allora occorre ritagliare spazi riservati ad essa, magari calendarizzati e tenuti ritualisticamente distinti da altri spazi che si condividono in altre vesti.
Ad esempio decidere una specifica serata settimanale riservata ad una cena di coppia in cui sia vietato il parlare dei figli o del lavoro o della salute, ecc. Ritornate a sognare insieme, non tutto è già stato fatto o detto.
5. Riandare al passato e rilanciare il futuro
Generalmente l’inizio della relazione racchiude una maggiore intesa sessuale e costituisce la maggiore fonte di apprendimento reciproco.
Riprendere da dove si era arrivati può fornire indicazioni per il prosieguo del discorso.
In questo dinamico spostarsi avanti ed indietro nel tempo può essere più facile cogliere l’invito ad una maggiore flessibilità laddove si fosse instaurata una certa monotonia e ripetitività.
Ricordando che il cambiamento non sta tanto nel panorama ma nello sguardo di chi lo ammira.
Se questi piccoli accorgimenti non bastassero, o sembra impossibile metterli in atto, potrebbe essere utile un colloquio con uno psicologo. Anche in una sola seduta si possono sbloccare situazioni ferme da tempo.
Troverai psicologi qualificati ogni martedì sulla pagina Facebook di OneSession per il servizio di consulenze on line gratuite.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Birnbaum, G. E., Reis, H. T., Mizrahi, M., Kanat-Maymon, Y., Sass, O., & Granovski-Milner, C. (2016). Intimately connected: The importance of partner responsiveness for experiencing sexual desire., Journal of Personality and Social Psychology 111(4), 530-546.
Tomasi di Lampedusa, G. (1958). Il Gattopardo. Feltrinelli
Mi sono laureata in Psicologia ad indirizzo Applicativo nel 1990 presso la facoltà di Psicologia dell’Università “La Sapienza” di Roma. Ho maturato esperienza oltre che nello studio libero professionale, anche nell’ambito dei Consultori Familiari, acquisendo competenze nel sostegno psicologico, sostegno genitoriale, percorsi di educazione affettiva e sessuale.

Come superare un tradimento?
“Non sono turbato perché mi hai tradito,
ma perché non potrò più fidarmi di te” – Jim Morrison
Perdonare o non perdonare, è questo il dilemma.
Nonostante il tempo passi, la paura di subire un tradimento dal proprio partner resta una delle fobie più profonde e radicate.
Nessuno infatti accetta l’idea di stare in coppia e essere tradito.
Con i social network, scoprire il tradimento è diventato più semplice, nonostante entri in gioco il conflitto interiore per la violazione della privacy altrui.
La sete di conoscenza è più forte del senso di colpa in alcuni casi e in altri è il partner stesso a vuotare il sacco e confessare il tradimento.
Cosa fare a quel punto?
Ogni persona è diversa, ma se c’è un sentimento forte e una progettualità di coppia, sicuramente nella maggioranza dei casi non si accetta di buon grado la notizia del tradimento.
Come reagire?
Non è affatto facile.
Nel momento in cui si è traditi, al di là dei motivi (che possono essere tanti), si perde la fiducia nell’altro.
E si sa che un coppia senza la fiducia, stenta a sopravvivere.
Infatti nella maggior parte dei casi, ciò che succede è il partner che ha subito il tradimento, decide di perdonare; tuttavia il suo comportamento cambia, virando verso l’ipervigilanza e il monitoraggio costante del partner.
Questo genera ulteriore conflitto nella coppia diversi “ruoli”.
Il traditore è costantemente sotto processo e qualsiasi azione compia per redimersi non ha effetto; fa di tutto per rimediare all’errore commesso e ripristinare il rapporto di coppia. Fornisce spiegazioni dettagliate, scusandosi di continuo e avvertendo un forte senso di colpa.
Il tradito invece non riesce né a fidarsi del tutto, né a lasciare il partner. Vorrebbe ricostruire il rapporto ma è ripensa costantemente all’evento e al passato, probabilmente dandosi anche in parte la colpa di quanto successo. Rimugina sull’umiliazione subita, cerca segnali che gli dicano che il partner è sinceramente pentito e che non sta ancora tradendo. Il dubbio si è insinuato in lui e fatica a scacciarlo.
Bada bene, mi riferisco alla coppia che ha deciso di restare insieme, dove il partner che ha tradito si è pentito dell’atto.
Puoi passarci sopra?
Non esiste una strategia univoca o un consiglio efficace per il tradimento; si tratta più che altro di una decisione tua personale.
Nn ci sono vie di mezzo in questi casi, ma ciò che devi fare è scegliere se perdonare o no il tuo partner.
Voglio farti riflettere su cosa significa la parola perdono: “Assolvere qlcu. per qlco. che ci ha offeso o danneggiato, rinunciando alla vendetta”[1]
Significa che scegli di dimenticare quanto accaduto, come se non fosse mai successo per poter guardare avanti privo di rancore e vendetta. Altrimenti non funziona. So che non è facile e avrai bisogno di tempo affinché la ferita si rimargini ma non si può costruire su qualcosa di rotto; bisogna spazzare via tutto e ricominciare.
- Parla con il tuo partner di come ti senti e di quelle che sono le tue emozioni
- Ridefinite i confini e i ruoli all’interno della coppia
- Pensa tutti i giorni a comportarti “Come se” il tradimento non è mai avvenuto, scegliendo la cosa più piccola che puoi mettere in atto. Provaci!
- Rivolgiti a un professionista per una terapia di coppia.
La Terapia a Seduta Singola è utile anche in questi casi perché ti aiuta a focalizzare l’attenzione su ciò che non funziona o su quello che ti servirebbe per ricostruire la coppia.
Sei interessato alla Terapia a Seduta Singola?
Puoi rivolgerti ai nostri psicologi e psicoterapeuti, disponibili ogni martedì dalle 18.00 alle 20.00, per una consulenza gratuita online.
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Riferimenti Bibliografici
Algeri D., Guarasci V., Lauri S. (2019), La coppia strategica. Guida per un sano rapporto di coppia. Roma: EPC Editore.
Sono una psicologa che si occupa di consulenze brevi e di TSS: il mio obiettivo è ridurre i tempi della terapia e massimizzare l’efficacia della seduta, offrendo un sostegno focalizzato e concreto per affrontare sia le piccole che le grandi difficoltà della vita

Abuso Sessuale: come superarlo?
Che cosa si intende con “abuso sessuale”?
Per abuso sessuale si intende nello specifico “il coinvolgimento di soggetti immaturi in attività sessuali, in assenza di consapevolezza e possibilità di scelta, in violazione dei tabù sociali o delle differenze generazionali. Le attività sessuali possono includere sia rapporti sessuali veri e propri, sia forme di contatto erotico, sia atti che non prevedono un contatto diretto” (Montecchi, 1994).
Il termine abuso sessuale viene usato in modo più generico nel linguaggio quotidiano, per descrivere ogni tipo di contatto sessuale non consensuale, inclusi ad esempio
- l’uso di parole dispregiative da parte del partner o di una persona intima,
- il rifiuto di utilizzare metodi contraccettivi,
- il provocare deliberatamente dolore fisico al partner durante i rapporti sessuali,
- contagiare deliberatamente il partner con malattie infettive o infezioni di tipo sessuale,
- utilizzare oggetti, giochi o altre cose che causano dolore o umiliazione senza il consenso del partner.
Si parla di abuso sessuale anche nei casi in cui la persona non viene fisicamente toccata, ma viene esposta alla visione o all’ascolto di vicende a contenuto sessuale non pertinenti all’età o alla relazione con l’abusante
La forma di abuso sessuale può variare fortemente a seconda del grado di invasività, della relazione che intercorre tra vittima e autore dell’abuso, della presenza di consapevolezza della vittima rispetto a quanto accade, dalla frequenza con cui l’abuso si verifica.
L’aspetto fondamentale, invece, è quello che riguarda la condizione della vittima: impossibilitata a scegliere o a comprendere correttamente quello che sta accadendo o che viene proposto.
Abuso sessuale e Disturbo da Stress Post-Traumatico
L’abuso sessuale rappresenta una esperienza traumatica a tutti gli effetti: i sintomi presentati dalla persona abusata possono essere collocati all’interno del Disturbo Post-Traumatico da Stress.
L’esperienza subita può tornare frequentemente alla mente sotto forma di immagini, emozioni, sensazioni fisiche, parole, suoni, odori, sapori, incubi notturni.
Nei bambini i ricordi tendono a ripresentarsi sotto forma di incubi popolati da mostri e nel ripetere attraverso il gioco o il disegno qualche elemento significativo dei fatti accaduti.
L’abuso sessuale può produrre inoltre diversi problemi psicologici e per tale ragione rappresenta un “fattore di rischio non specifico” nello sviluppare altri disturbi.
Fra le vittime di abusi sessuali sono relativamente frequenti problemi psicosomatici, disturbi del comportamento alimentare, abuso di alcool, farmaci e di sostanze stupefacenti.
La sfiducia, le difficoltà sessuali, insieme a difficoltà nella gestione della rabbia e delle distanza fra le persone comportano frequentemente problemi nella gestione delle relazioni interpersonali.
Abuso sessuale e psicoterapia
La risposta soggettiva all’evento varia a seconda dell’età al momento dell’abuso, della durata dell’evento, se è avvenuta o meno penetrazione, la possibilità di condividere con qualcuno l’accaduto, il sostegno emotivo ricevuto in seguito.
Tipicamente la persona che ha subito un abuso sessuale cerca di mantenere a distanza i ricordi traumatici. In alcuni casi, addirittura, è possibile che, almeno in determinati periodi della vita, la persona abusata abbia amnesie più o meno parziali per gli eventi accaduti o ricordi estremamente confusi.
In una quantità rilevante di casi i ricordi dell’abuso progressivamente perdono in parte l’aspetto drammatico che li contraddistingue, divenendo più facilmente gestibili da parte dell’individuo.
Se questo è certamente un vantaggio, d’altra parte può anche comportare un pericolo potenziale, in quanto la persona si può abituare a convivere con i problemi generati dall’abuso, a non condividerli con nessuno e, in generale, a non affrontarli adeguatamente.
La psicoterapia per le persone che hanno subito abuso sessuale è dunque fortemente consigliata.
Sono relativamente frequenti, infatti, le situazioni in cui il trauma non viene realmente superato, ma più semplicemente la persona abusata impara a convivere con esso, a costo di grandi sofferenze e di limitazioni nella propria possibilità di vivere la vita pienamente.
Il terapeuta aiuterà a trovare le strategie più efficaci per far fronte all’evento traumatico subito e i sintomi psicologici ad esso associati.
Se sei interessato alla Terapia a Seduta Singola e vuoi chiedere una consulenza, ricordati che ogni martedì, per un periodo limitato, dalle ore 18 alle ore 20, gli psicologi e gli psicoterapeuti del nostro team One Session sono disponibili per degli incontri gratuiti aperti a tutti.
Contattaci per maggiori informazioni inviando una email a info@onesession.it oppure visita la nostra pagina Facebook OneSession.it.
Bibliografia
Cartei, F. Grosso, (2016), Come elaborare e superare il trauma dell’abuso sessuale subito nell’infanzia, Franco Angeli.
Montecchi, Gli abusi all’infanzia, (1994), La Nuova Italia Scientifica.
Psicologa, laureata all’Università “La Sapienza” di Roma, mi sto formando come psicoterapeuta ad approccio Breve Sistemico-Strategico.
Lavoro da anni in Servizi rivolti a persone con disabilità e con disturbi psichiatrici, occupandomi di sostegno psicologico individuale, di coppia e alle famiglie, favorendo processi di crescita personale e la costruzione di percorsi volti a migliorare la qualità di vita.

La depressione post partum: vergognarsi di non essere felici
Cos’è la depressione post partum?
La depressione post partum esordisce genericamente tra la 6° e la 12° settimana dopo la nascita del figlio. La neomamma comincia, immotivatamente, a sentirsi giù di morale, irritabile, facile al pianto. Per tutti questi motivi sente di non essere all’altezza del suo nuovo ruolo di mamma, vergognandosi per non provare la gioia di aver messo al mondo un bambino; gioia che nelle altre mamme che conosce sembra essere scontata.
E così è molto frequente che chi soffre di depressione post partum lo faccia in silenzio, per non mostrarsi debole. Queste mamme non sono inclini a chiedere aiuto, proprio per evitare un giudizio negativo nei loro confronti e sentirsi dei genitori incapaci.
La depressione post partum non è in realtà così rara: si stima che colpisca dal 7 al 12% delle neomamme. I sintomi principali sono quelli della depressione, nello specifico:
- Umore depresso per la maggior parte del tempo
- Disinteresse per le varie attività
- Difficoltà del sonno
- Fatica e perdita di energie
- Diminuita attenzione e concentrazione
- Sensi di colpa
a cui si aggiunge una mancata connessione emotiva con il bambino. La mamma interagirà poco con lui e di conseguenza non darà il via allo sviluppo di un buon legame di attaccamento.
Depressione post partum e baby blues: quali differenze?
La depressione post partum non è da confondere con un’altra condizione, il cosiddetto baby blues, un disturbo di lieve entità che colpisce fino il 70% delle neomamme.
Il baby blues è caratterizzato da una sensazione di malinconia, tristezza, inquietudine, che generalmente si manifesta nei primi 3 -4 giorni dopo il parto e si protrae per circa 15 giorni. L’insorgere di queste sensazioni è di tipo fisiologico, da attribuire al drastico cambiamento ormonale successivo al parto e alla stanchezza fisica e mentale derivate dal travaglio.
I miti della maternità
La paura di sviluppare una depressione post partum può spaventare molto le future madri e una serie di false credenze sulla maternità e sull’essere genitori può contribuire ad aggravare il senso di inadeguatezza di chi vive questa situazione.
Queste credenze riguardano l’istinto materno e la naturalezza di essere genitori. È sì vero che alcuni processi legati alla gravidanza avvengono in modo spontaneo e naturale, ma questo non vale per tutti i comportamenti legati alla maternità.
Diventare genitori dà e toglie, ed è normale che a volte ci si possa sentire limitati dalla maternità o che alcuni comportamenti non avvengano spontaneamente.
Superare la depressione post partum in tempi brevi
Il primo passo per uscire dalla depressione post partum è quello di prendere la situazione in mano e chiedere aiuto, senza la paura di venire giudicata come una cattiva madre; abbiamo visto che questa problematica è più frequente di quanto si pensi e che genitori non si nasce, ma si diventa.
Grazie all’aiuto di professionisti formati in Terapia a Seduta Singola, già dal primo incontro si potranno indagare e sbloccare le risorse della neomamma, indirizzandole verso il raggiungimento di un maggior benessere, per lei e per il figlio.
Se sei interessata alla Terapia a Seduta Singola, puoi rivolgerti ai nostri psicologi e psicoterapeuti, disponibili ogni martedì, per un periodo limitato, dalle 18.00 alle 20.00, per una consulenza gratuita online.
Bibliografia
Cannistrà, F. Piccirilli (2018), Terapia a Seduta Singola. Principi e pratiche. Giunti Psychometrics
https://www.psychologytoday.com/us/blog/tech-support/201502/mothers-love-myths-misconceptions-and-truths
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.

La fame nervosa: un rifugio dal quale uscire
Può capitare che vi troviate a sbirciare dentro al frigorifero, o ad aprire ogni singolo sportello di dispensa che contiene cibo, sentendo il desiderio di dover smangiucchiare senza in realtà non avere neanche troppa fame, magari avendo consumato il normale pasto neanche troppo tempo prima.
Perché succede questo?
Una breve definizione
In psicologia la fame nervosa è definita come il desiderio incontrollabile, tale per cui presi da un raptus, si sente di dover mangiare anche senza fame, quindi senza un bisogno fisiologico vero e proprio.
Può questa, piuttosto, subentrare a causa di uno stato emotivo (solitamente negativo) caratterizzato da noia, ansia, tristezza, ecc.
La fame nervosa ci porta a sostituire il bisogno di fare qualcosa, di gestire l’ansia e di colmare la tristezza attraverso il cibo.
Quando la fame parte da questo presupposto il cibo scelto, solitamente, è un alimento che ha il potere psicologico di creare uno stato di benessere momentaneo in chi lo mangia.
Quindi è possibile, già da queste poche righe, notare come la voglia di cibo sia un’esperienza multidimensionale che comprende aspetti cognitivi (il pensiero verso di esso), emotivi (il desiderio), comportamentali (la ricerca) e fisiologici.
Il cibo come rifugio: da protettivo a problematico
Una forma di comunicazione
Il cibo è una forma di comunicazione con noi stessi e con gli altri, un modo per sentirsi in relazione e per vivere gli incontri.
Ma quando la relazione perde il suo equilibrio, si può rischiare di utilizzare il cibo come rifugio, cadendo in comportamenti poco sani per la salute.
Di fatti, il cibo potrebbe diventare un pensiero persistente e costante, in cui la parte gradevole e piacevole associata alla sua assunzione viene soppiantata da connotazioni negative.
L’improvviso attacco di fame, dettato dal cervello e non dallo stomaco, serve a riempire un vuoto, a sfogare dispiaceri, a colmare dolori ed a gestire le situazioni di preoccupazione e stress.
Una disperata fame d’amore che vede nel cibo un mezzo, un segnale per comunicare uno stato di disagio, una carenza d’affetto devastante.
Le esperienze di fame nervosa sono comuni, e non riflettono un comportamento alimentare anomalo di per sé.
Quando può diventare un problema?
Quando il comportamento alimentare è spinto ripetutamente da fame nervosa, raggiungendo un’intensità ed una frequenza tale da causare disagio o compromissione significativa della qualità di vita.
Inoltre, quando provoca una vera perdita di controllo nel rapporto con il cibo (per esempio vi è la sensazione di non essere in grado di riuscire a smettere di mangiare o a controllare quanto si stia mangiando), con conseguenze sulla salute.
Questo tipo di comportamento può sfociare in un disturbo da alimentazione incontrollata (Binge Eating Disorder), caratterizzato da pasti consumati in modo più rapido e in maggiori quantità rispetto al normale, fino a sentirsi spiacevolmente pieni, e invasi, subito dopo l’episodio, da sentimenti di colpa verso se stessi.
Le emozioni collegate alla fame nervosa non dipendono necessariamente da una condizione psicopatologica o da situazioni particolarmente ingravescenti, ma possono scaturire da numerose circostanze della vita quotidiana che generano uno squilibrio emotivo.
Così, anche quando non raggiunge livelli patologici, la fame nervosa può procurare un certo tipo di disagio, poiché dopo l’iniziale ed illusoria sensazione di benessere ottenuta mangiando, si ricade in quelle emozioni negative da cui si cercava di fuggire.
Questa re-invasione di emozioni negative, aggiunte al senso di colpa, innescano nuovamente lo stimolo nel desiderio di cibo “consolatorio”, inducendo alla possibile creazione di un circolo vizioso, caratterizzato da comportamenti automatici inerenti al mangiare, all’interno dei quali non si riesce a scorgere via di fuga.
Cosa fare per placare la fame nervosa
“Magari potessi placare la fame, stropicciandomi il ventre.” (Diogene di Sinope)
Esiste un modo per placare la fame nervosa?
Ecco alcuni suggerimenti utili che possono aiutare nel placare il desiderio e la ricerca di cibo “consolatorio” ed uscire da quel rifugio creato:
1. Evitare di comprare cibi consolatori
Il primo suggerimento, per quanto scontato possa sembrare, è quello di evitare di comprare cibi “consolatori” (o ridurne la quantità) che possono stimolare maggiormente il desiderio di spuntini extra. Qualcuno direbbe: “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”…o in questo caso lontano dalla bocca!
2. Impegna il tempo in attività che ti facciano star bene
Chiacchierare con persone a te care, uscire, fare passeggiate, attività fisica, scrivere, e tutto quello che ti viene in mente. Non esistono attività ideali da fare, ma impiega il tuo tempo in quelle che ti più ti piacciono e ti consentono di rifugiarti in luoghi più salutari rispetto ad un frigorifero!
3. Dividi i pasti durante la giornata
Idealmente bisogna fare 5 pasti (3 principali e 2 spuntini) durante tutto il giorno. Organizzali scadenzandone tempo e preferenze di alimenti. Concediti, però, qualche tentazione sulle scelte, purché rimangano all’interno dei pasti consentiti! Qualcuno suggerirebbe che: “l’unico modo di liberarsi di una tentazione è cedervi”.
Se vedi che questi piccoli suggerimenti non ti aiutano a ridurre la fame nervosa e pensi di aver bisogno di un supporto in più, rivolgiti ad un professionista.
La Terapia a Seduta Singola può aiutarti anche in un solo incontro eliminando i comportamenti che mantengono in vita il problema e ottenendo concreti benefici.
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Bibliografia
Nardone G. (2015). La dieta paradossale. Firenze: Ponte alle grazie
Nardone G. (2013). Al di là dell’amore e dell’odio per il cibo. Bur psicologia
Biondi M (2014). DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore

Onicofagia: mangiarsi le unghie tra piacere e dolore
Le parole hanno una forma e una struttura, occupano uno spazio linguistico e culturale e rivestono un ruolo sociale. Ma le parole hanno anche e soprattutto un valore.
Possiamo leggere attraverso il linguaggio, il movimento e il pensiero di un’intera comunità.
L’etimologia, ha la straordinaria capacità di entrare nell’intimo delle parole in modo trasversale, percorrendone a fondo il significato.
Il termine onicofagia viene dal greco “òniks–ònykhos”, unghia e “phagia”, mangiare ed è il classico esempio di quando i suoni di una parola descrivono o suggeriscono l’oggetto o l’azione che significano.
Mangiare le unghie è un’abitudine molto diffusa tra le diverse fasce d’età e le diverse culture.
Tormento e piacere che possono andare avanti in maniera transitoria e senza conseguenze oppure per anni anche senza accorgersene, come riflesso incondizionato oppure ancora che possono minare la serenità e la socialità di un individuo totalmente dipendente da questo vizio-passione.
L’unghia, con la pellicina e la cuticola circostante, diventa l’oggetto di una violenza cronica che può essere attuata in momenti di stress o di eccitazione, oppure, nei momenti di noia o d’inattività.
È discutibile se l’onicofagia sia solo un’abitudine o ci sia qualche dinamica psicologica sottostante.
Cosa dice il DSM?
Nel Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM 5), l’onicofagia è classificata tra i disturbi ossessivo-compulsivi, che vedono la contemporaneità di ossessioni, vale a dire pensieri indesiderati e continui e di compulsioni, cioè comportamenti dettati dalla necessità di compiere una particolare azione.
Dal punto di vista medico, l’onicofagia ha delle manifestazioni fisiche particolarmente rilevanti; può causare dolore, sanguinamento, arrossamento.
È responsabile di infezioni batteriche o virali, di patologie dentali e può portare a lesioni gengivali, oltre a facilitare la diffusione d’infezioni alla bocca.
Dal punto di vista sociale ed estetico, vedere una mano con le unghie consumate o osservare una persona intenta a mangiucchiare, tirare, sputare o ingoiare unghie e cuticole, può dare fastidio e far pensare, nell’immaginario collettivo, ad un individuo che trova nella pratica del vizio un modo di gestire i propri stati emotivi.
L’onicofagia può avere cause di origine ambientale e\o biologica, come appunto stress, ansia, rabbia, noia o imitazione di altri membri della famiglia (es. genitori, fratelli etc.)
Come smettere?
Perché si può desiderare di smettere?
Potrebbe esserci la paura di sviluppare infezioni o la volontà, ad esempio, di avere un aspetto più curato e sano.
L’onicofagia può manifestarsi in forma lieve, media o grave.
Il trattamento più comune e ampiamente disponibile, prevede l’applicazione di uno smalto di sapore amaro, che scoraggia l’abitudine di mangiarsi le unghie; l’odore e il gusto sgradevoli ricorderanno all’onicofago di fermarsi ogni volta che porta le mani alla bocca.
Altri rimedi semplici ed immediati possono riguardare la cosmesi cioè il prendersi cura delle proprie mani, tenendo le unghie corte o ricostruendole.
Questi rimedi possono rivelarsi efficaci quando la manifestazione del problema avviene in forma lieve o media e può quindi essere gestita attraverso piccoli accorgimenti distraenti dall’azione.
Quando il problema si manifesta in forma grave sarà necessario concentrarsi sul cambiamento dei comportamenti, tenendo conto dei fattori emotivi che inducono l’abitudine (ansia, stress, rabbia, noia, tristezza).
Potrebbe essere necessario individuare un modo per scaricare il cumulo di stress e tensione repressi, per trarne un effetto positivo sul fisico e sulla mente.
Praticare una sana attività fisica è un buon modo per sfogarsi perché l’impegno fisico libera la mente ed allenta le tensioni (lunghe passeggiate, corsa, bicicletta, palestra…).
Lo sport potrebbe rivelarsi utile anche per combattere la noia e la tristezza.
Nei casi più gravi, l’onicofagia può assumere la connotazione di un atteggiamento autolesionistico, cioè un’espressione di aggressività rivolta verso se stessi e questo potrebbe richiedere l’aiuto di uno psicoterapeuta .
Come smettere utilizzando la Terapia Breve?
Mangiarsi le unghie è un vero e proprio rituale inevitabile e irrefrenabile che viene eseguito per prevenire la propria realtà, oppure porre rimedio alle conseguenze negative di una propria azione o pensiero.
Si cerca dunque di controllare la realtà e si diviene schiavi di questo controllo.
Una vera e propria sequenza di pensiero e azione che consoliderà il disturbo nel tempo e che il terapeuta cercherà di interrompere utilizzando stratagemmi terapeutici che mirano a creare esperienze emozionali correttive capaci di agire sul sistema percettivo dell’individuo e di conseguenza sulla capacità di gestire un comportamento.
Le esperienze emozionali correttive sono le chiavi che il terapeuta aiuta il paziente a trovare per aprire nuove porte, dietro cui troverà nuove esperienze e nuove emozioni.
Obiettivo primario di questi stratagemmi terapeutici è quello di far divenire il comportamento volontario e non più compulsivo, in modo da:
- rendere la persona capace di controllare il disturbo ossessivo;
- far si che la persona possa decidere di rimandare la messa in atto del rituale;
- interrompere la sequenza percettivo-reattiva che consolida il disturbo nel tempo;
- privare il rituale del suo piacere evidenziandone la sgradevolezza attraverso il controllo su di esso e attraverso il doverlo mettere in atto obbligatoriamente.
Hai letto questo articolo tutto d’un fiato?
Hai tormentato le tue unghie facendolo?
Se ritieni di non riuscire da solo attraverso semplici e immediati rimedi a gestire questo vizio, non esitare a rivolgerti ad un professionista capace di guidarti verso nuovi scenari.
Bibliografia
Dettore D., Giaquinta N., Pozza A. (2019) – I disturbi da comportamenti focalizzati sul corpo – Firenze: Giunti Editore
Nardone G. (1993) – Paura, panico, fobie. La terapia in tempi brevi – Firenze: Ponte delle grazie

Quando bere è la soluzione (disfunzionale)
Quando parliamo di alcol spesso ci viene in mente la dipendenza da questa sostanza. Di questo, certamente, se ne occupano in modo efficace ed efficiente i servizi addetti.
Esistono, però, oltre ai casi più gravi ed invalidanti, delle situazioni in cui il bere diventa un problema: quando è l’unico modo per divertirsi, per distrarsi, per risolvere un problema.
In questo caso parliamo di abuso di alcol o di uso problematico, che può essere trattato e risolto in tempi brevi senza necessariamente rivolgersi ad un servizio.
Ma facciamo chiarezza.
Quand’è che siamo di fronte ad una dipendenza?
Secondo il DSM-5 (il manuale di classificazione dei disturbi mentali) si può parlare di dipendenza da alcol se sono presenti almeno 2 di questi criteri:
- L’alcol è spesso assunto in quantità maggiori o per periodi più prolungati rispetto a quanto previsto dalla persona
- La persona desidera spesso ridurre o controllare l’uso dell’alcol, ma non riesce a farlo, i suoi tentativi sono sempre fallimentari
- La persona spende una grande quantità di tempo in attività necessarie a procurarsi l’alcol (per es. guidando per lunghe distanze), ad assumerla (per es., passando il tempo ad ingerire una grande quantità di acolici), o a riprendersi dai suoi effetti
- La persona prova una forte smania, un forte desiderio di bere (craving)
- Usa in modo ricorrente l’alcol, con conseguente fallimento nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa
- Beve in modo continuativo nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o peggiorati dagli effetti dell’alcol
- Compromissione di importanti attività sociali, lavorative o ricreative che vengono interrotte o ridotte a causa del bere
- Beve spesso in situazioni nelle quali farlo è fisicamente pericoloso
- Beve di continuo nonostante la consapevolezza di un problema persistente o ricorrente, fisico o psicologico, che è stato probabilmente causato o intensificato dall’alcol
- Sperimenta la “tolleranza”, cioè: a) il bisogno di bere quantità sempre maggiori di alcol per raggiungere l’effetto desiderato; b) un effetto notevolmente diminuito con l’uso continuativo della stessa quantità di alcol
- Sperimenta i sintomi di astinenza, cioè: a) vive la caratteristica sindrome di astinenza per la sostanza; b) l’alcol (o un’altra sostanza strettamente correlata) è assunto per attenuare o evitare i sintomi dell’astinenza stessa.
Bere è il problema o la soluzione?
L’alcol ed in generale il bere può essere considerato come la soluzione disfunzionale che la persona mette in atto per risolvere un problema o una difficoltà.
Che significa “soluzioni disfunzionali”?
Sono tutti quei comportamenti che hai messo in atto per risolvere il problema, e che non sono non lo hanno risolto, ma lo hanno addirittura peggiorato.
Facciamo degli esempi.
- Hai iniziato a bere per sentirti più rilassato?
- Per riuscire a socializzare meglio con gli altri?
- Per non pensare e non affrontare una difficoltà della tua vita?
- Per mettere a tacere delle emozioni spiacevoli?
Qualunque sia il motivo che ti ha spinto a bere, quello diventa l’arma per far fronte a qualcosa che non riesci a gestire, controllare o affrontare.
Ed è proprio la soluzione che diventa il problema. Perché effettivamente quando bevi ti senti più rilassato, socializzi in modo più spigliato, non pensi ai problemi e non senti le emozioni.
Solo che…bere non ha davvero risolto la tua difficoltà!
Come può aiutarti la Terapia a Seduta Singola?
Lo scopo principale è quello di far vedere alla persona che c’è uno scenario oltre il problema in cui è rimasta intrappolata e, contemporaneamente, bloccare tutte quelle azioni che mette in atto e che non risolvono il problema.
Infatti, più la persona beve e utilizza questo comportamento come soluzione ai suoi problemi di altra natura, più conferma a se stessa che senza l’alcol non è in grado di risolverli.
Se tu pensi che per essere più spigliato con gli altri hai bisogno dell’alcol, ti stai confermando che senza l’alcol non sei capace di farlo. Ed ecco che la soluzione diventa il problema.
Quindi, bloccare queste soluzioni disfunzionali sarà utile per rapportarsi in modo diverso a quelle situazioni che creano disagio e malessere e trovare un modo più funzionale e, soprattutto risolutivo, per affrontarle e superarle.
Spesso si parte proprio dalle risorse della persona, per individuare quali sarebbero le prime cose che potrebbe fare per cambiare il proprio rapporto col bere.
Smettere di abusare dell’alcol è possibile. Ricerche condotte nel campo dell’abuso di sostanze e delle dipendenze hanno mostrato come spesso anche una sola seduta porta dei concreti miglioramenti.
Se sei interessato alla Terapia a Seduta Singola ogni martedì per un periodo limitato, dalle 18:00 alle 20:00 gli Psicologi e gli Psicoterapeuti del nostro team One Session si rendono disponibili per degli incontri gratuiti aperti a tutti.
Bibliografia
Barry, K. L. (1999). Brief Interventions and Brief Therapies for Substance Abuse: Treatment Improvement Protocol (TIP) Series 34. Rockville: U.S. Department of Health and Human Services.
Berg, I. K. & Miller, S. (1992). Quando bere diventa un problema. Milano: Ponte alle Grazie, 2001.
Sono una Psicologa, specializzata in Dipendenze da sostanze, comportamentali (gioco d’azzardo, shopping, ecc) e relazionali (dipendenza affettiva). Sono formata all’utilizzo della Terapia a Seduta Singola (TSS) e della Terapia Centrata sulla Soluzione, per aiutare le persone a risolvere i loro problemi e tornare al benessere nel più breve tempo possibile, imparando a scoprire e sfruttare al meglio tutte le loro risorse.

Come migliorare la convivenza con il partner… tra una lavatrice e l’altra?
L’antropologo Gregory Bateson descrive come, in natura, le coppie di ricci, per abitare comodamente nella propria tana ed evitare di pungersi, trovino un reciproco accomodamento.
Il riccio maschio aspetta che la compagna si adagi, per sistemarsi poi di conseguenza. Successivamente la compagna si risistema meglio a seconda della posizione del compagno e così via.
Alla fine i due arrivano a stare vicini, a riscaldarsi reciprocamente e ad addormentarsi.
Allo stesso modo la vita di coppia, e la convivenza in particolare, richiedono continue e differenti fasi di aggiustamento, non prive di difficoltà.
Eppure, come l’esempio delle coppie di ricci insegna, è possibile costruire una confortevole convivenza con il proprio partner, se ciascuno riesce a modularsi, adattarsi, ma anche ingegnarsi, per poter raggiungere nuovi obiettivi.
Convivenza e faccende domestiche
Molto spesso le coppie che si rivolgono ad uno psicologo, arrivano con la speranza e l’obiettivo di riuscire a far cambiare i comportamenti o gli atteggiamenti dell’altro partner.
Nella maggior parte dei casi, infatti, la richiesta di un percorso di coppia nasce da uno solo dei partner, che decide, di “portare” l’altro in terapia, ritenendo che siano i suoi comportamenti ad essere la causa di tutti i problemi!
Tuttavia, secondo una recente ricerca di Ochs e Kremer-Sadlik, l’elemento chiave per garantire una convivenza felice, oltre ad una buona comunicazione tra i partner, è l’equa distribuzione, quasi matematica, delle faccende domestiche.
Se all’interno della casa ogni partner sa esattamente cosa fare e cosa aspettarsi dall’altro, le cose vanno, secondo i ricercatori, decisamente meglio.
La coppia in ordine
In Italia, secondo l’indagine ISTAT del 2008- 2009, si rileva che il lavoro domestico risulta ancora per lo più a carico delle donne (76%).
Le differenze territoriali sono più marcate nelle coppie in cui lei non lavora.
L’indice assume valori inferiori al 70% solo nelle coppie settentrionali in cui lei lavora e non ci sono figli, e nelle coppie in cui la donna è una lavoratrice laureata (67,6%)”, si legge nel rapporto.
Anche la più recente indagine del 2020, condotta dall’ISTAT dopo la fase di lock-down, ha registrato solo una minima flessione rispetto ai dati precedenti.
La soluzione dunque per migliorare la convivenza, sarebbe quella di rendersi interscambiabili, pur mantenendo ciascuno i propri “stili” nell’eseguire certi compiti (ad esempio il diverso stile nello stendere i panni, nel preparare i pasti, nel riordinare la casa ecc.).
Quando però questo non è possibile, per creare complicità e collaborazione tra i partner, diventa utile trovare un accordo attribuendosi ciascuno dei compiti fissi, seguendo le proprie naturali inclinazioni.
Convivenza: suggerimenti per l’uso
Per distribuire la giusta leggerezza e armonia alla convivenza, può esservi di aiuto seguire qualche piccolo consiglio:
- Scrivete entrambi una lista: i lavori di casa che vi vanno bene e quelli che invece odiate fare. Cercate di trovare un accordo rispetto a diverse “aree”: pulizie, bucato, cucina, gestione dei figli, mantenimento dell’ordine nelle stanze e funzionalità della casa;
- Accordatevi su una o due faccende di cui vi occuperete sempre e solo voi;
- Scegliete almeno una cosa da fare insieme;
- Una volta scelta la vostra “area”, accordatevi con il partner per scambiarla con regolarità (ad esempio: lavare i piatti, una sera l’uno, una sera l’altra);
- Fatevi i complimenti a vicenda, cercate di comunicare al partner quanto vi renda felici questa continua collaborazione nella convivenza.
Se invece le indicazioni sopra descritte vi sembrano impossibili da raggiungere, se pensate di vivere all’interno di incomprensioni difficilmente sanabili, la cosa migliore prima di prendere decisioni avventate, è rivolgersi alla consulenza di uno psicologo.
Attraverso la Terapia a Seduta Singola ad esempio è possibile intervenire sul problema ed ottenere benefici in tempi brevi, ricavando il massimo anche da un singolo incontro.
Puoi chiedere una consulenza scegliendo il terapeuta vicino a te o che faccia consulenza anche on-line, cliccando sul sito www.onesession.it.
Singolarmente o come coppia, potete ottenere risultati significativi già dal primo (e forse unico) incontro, restituendo equilibrio alla vostra relazione.
Dott.ssa Monica Patrizi
Bibliografia
Algeri D., Guaraschi V., Lauri, S. (2019) “La coppia strategica”, EPC Editore
Nardone G. (2019) “Correggimi se sbaglio”, Ponte alle Grazie Editore
Sitografia
http://dati.istat.it.
Psicologa, laureata all’Università “La Sapienza” di Roma, mi sto formando come psicoterapeuta ad approccio Breve Sistemico-Strategico.
Lavoro da anni in Servizi rivolti a persone con disabilità e con disturbi psichiatrici, occupandomi di sostegno psicologico individuale, di coppia e alle famiglie, favorendo processi di crescita personale e la costruzione di percorsi volti a migliorare la qualità di vita.

Quando una sola seduta può essere sufficiente
Quanto dura un percorso psicologico?
Un mese?
Un anno?
Di più?
E se una sola seduta fosse sufficiente?
Il numero più frequente di sedute in psicoterapia è 1
Intorno agli anni ’90 lo psicologo Moshe Talmon fece una scoperta casuale. Gli capitò di analizzare il numero di accessi dei pazienti seguiti al Kaiser Permanente, il centro dove lavorava.
Talmon si rese conto che, confrontando l’attività di una trentina di operatori tra psichiatri, psicologi e operatori sociali, il numero più frequente di sessioni di terapia era uno.
Spinto da questa scoperta condusse una ricerca più strutturata che portò ai seguenti risultati:
- uno è il numero più frequente di sedute in psicoterapia
- tra il 20 e il 50% delle persone sceglie di fare una sola seduta
- fino all’80% delle persone che scelgono di fare una sola seduta ritiene di stare meglio o di aver risolto il suo problema.
Questi risultati sono stati confermati in diverse parti del mondo: una recentissima ricerca ha potuto estendere questi dati anche alla realtà italiana (Cannistrà et al., 2020).
Col lavoro pioneristico di Talmon si è quindi messa in dubbio l’idea comune che i cambiamenti psicologici abbiano bisogno di lunghi periodi per avvenire.
A scardinare ancora di più questa idea ci pensa lo psicologo Michael Hoyt, il quale ritiene che il numero più frequente di sedute in psicoterapia sia addirittura zero!
Che significa?
Prova a pensare: quante volte nella tua vita hai dovuto affrontare dei problemi? E quante volte ti sei rivolto ad uno psicologo per risolverli?
Generalmente le persone risolvono i propri problemi da sole, perché hanno le risorse per poterlo fare!
Trarre il massimo da ogni singolo incontro grazie alle risorse della persona
La terapia a seduta singola è una tecnica che permette di massimizzare l’efficacia di ogni singolo incontro.
Per farlo, sfrutta al meglio le risorse di tipo cognitivo, emotivo, sociale ed esperienziale che l’individuo già possiede ma che in quel momento magari non riesce ad usare al meglio o non riesce a vedere.
In un incontro di Terapia a Seduta Singola ogni seduta è concepita come completa in sé: ci si focalizza su un problema specifico portato dalla persona e si lavora fin da subito per raggiungere un obiettivo concordato.
L’interesse di una Terapia a Seduta Singola non è tanto ricercare le cause del problema quanto focalizzare l’obiettivo e identificare le risorse e capacità che possono facilitare l’individuo nel suo raggiungimento, eventualmente bloccando comportamenti controproducenti che mantengono vivo il problema.
Quindi posso risolvere tutti i miei problemi in un solo incontro?
Sebbene le ricerche dimostrino che una sola seduta può essere sufficiente, non è possibile stabilire a priori se sarà così. Alcune persone beneficiano di un solo incontro, altre hanno la necessità di intraprendere un percorso (anche breve). Va bene in ogni caso, esistono persone e persone, problemi e problemi.
Che basti un incontro o che ne servano altri, con la Terapia a Seduta Singola si lavora come se quel primo incontro fosse potenzialmente l’unico, massimizzandone quindi l’efficacia.
Per quali problemi e situazioni funziona?
La Terapia a Seduta Singola è efficace per ampissimo numero di problemi, quali ansia e attacchi di panico, depressione, disturbo post traumatico da stress, insonnia, disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza.
Può essere utile anche tutte quelle situazioni dove non esiste un problema o un disturbo conclamato, ma si ricorre allo psicologo ed alla Terapia a Seduta Singola per prendere una decisione o per migliorare degli aspetti di se stessi.
Il fatto che ogni incontro sia completo in sé, inoltre, permette di pensare allo psicologo come al medico di famiglia: un professionista a cui rivolgersi al bisogno.
Se sei interessato alla Terapia a Seduta Singola ogni martedì per un periodo limitato, dalle 18:00 alle 20:00 gli Psicologi e gli Psicoterapeuti del nostro team One Session si rendono disponibili per degli incontri gratuiti aperti a tutti.
Bibliografia
Cannistrà, F. Piccirilli (2018), Terapia a Seduta Singola. Principi e pratiche. Giunti Psychometrics
Cannistrà et al. (2020), Examining the Incidence and Clients’ Experiences of Single Session Therapy in Italy: A Feasibility Study, Australian and New Zealand Journal of Family Therapy
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.

Il buio dell’anima: la depressione
Molto spesso utilizziamo il termine depressione per definire tutto ciò che ci fa sentire tristi, giù di tono, col morale a pezzi, malinconici. Sia che si tratti di comportamenti che di pensieri. Dimentichiamo però che per poter parlare di depressione bisogna seguire determinati criteri diagnostici.
“Male oscuro”, mostro, “male del secolo”, questi sono alcuni dei termini popolari utilizzati per riassumere e definire ciò che accade:
- Malessere diffuso;
- Evitamento di situazioni di socialità;
- Apatia;
- Insonnia;
- Inappetenza;
- Incapacità a provare piacere.
Sintomi che possiamo riconoscere in molte situazioni che ci vedono impegnati in momenti di sofferenza o forte stress.
“La depressione è un’epidemia di portata mondiale. Nel 2020, secondo le stime dell’O.M.S., la depressione sarà la più diffusa malattia del pianeta. Personalmente credo che la maggior parte delle depressioni abbia le sue radici nella solitudine, ma la comunità medica preferisce parlare di depressione piuttosto che di solitudine. È più facile liberarci del problema dando una diagnosi e una scatola di farmaci”.
Questo pensiero di Patch Adams, medico attivista e scrittore statunitense fondatore della clownterapia ospedaliera, racchiude l’abuso e la leggerezza con i quali viene utilizzato il termine depressione e soprattutto la trascuratezza nel prevedere le conseguenze che si determinano nella società in quanto si insinua il pensiero, pericoloso e falso, che la depressione può portare a commettere i gravi fatti spesso riportati dalla cronaca.
Ne consegue così diffidenza verso i soggetti realmente afflitti da tale patologia.
Paura e pregiudizio sono infatti i principali nemici di questa malattia. Anche la medicina può rivelarsi nemica nel momento in cui cerca di inibire la sofferenza, trascurando che essa fa parte della nostra natura.
Come funziona?
La depressione appare sempre più frequentemente come conseguenza di eventi madre (lutto, separazione, perdita del lavoro, tradimento etc.), che si sceglie di curare chiudendosi in se stessi e attivando un sistema di difesa e allarme dal mondo esterno cui non deve essere dato sapere del nostro fallimento.
Talvolta il momento di calo serve a raccogliere le idee e a trovare nuove strategie per fronteggiare il cambiamento che consegue la situazione di perdita, lutto o altro.
Un ricaricare le batterie per ripartire e vivere. Una primavera dell’anima che prepara corpo e mente ad una nuova stagione.
Quando però ciò non accade, il momento di calo può fortificarsi e cristallizzare lo stato d’animo in una condizione di:
- Abbattimento;
- Prostrazione fisica e psichica;
- Pessimismo;
- Distacco dagli interessi abituali;
- Svalutazione delle proprie capacità e abilità;
- Immobilità fisica, psichica e sociale.
Tali condizioni possono divenire invalidanti e condurre la persona ad uno stato di depressione grave.
Laddove poi è carente la capacità di costruire e coltivare sane relazioni interpersonali e col mondo esterno, l’isolamento altro non farà che acutizzare una situazione già precaria e sofferente.
Non si riuscirà a utilizzare lenti nuove per leggere la realtà e questo porterà a demoralizzarsi e a sentirsi vittime di ingiustizia e ingratitudine da parte del mondo e degli altri.
Lo stato depressivo appare dunque caratterizzato da quattro ingredienti fondamentali: la rinuncia, la rabbia, il vittimismo e l’affidare ad altri o ad altro le nostre responsabilità.
L’evento madre non sempre si riferisce però ad un trauma psichico ma può anche riguardare la impossibilità di raggiungere un obiettivo prefissato, l’incapacità di risolvere un problema o la delusione rispetto ad aspettative su persone o fatti che sono in relazione con noi.
Come può essere d’aiuto la terapia breve?
Cosa stai facendo? Che strategia stai mettendo in atto?
Il primo passo è quello di aiutare la persona a individuare i comportamenti che sta agendo per affrontare il problema, in modo da comprendere se si tratta di un comportamento che peggiora invece di migliorare la situazione. Si lavora pertanto su ciò che lo stato depressivo comporta, manifestandosi attraverso atteggiamenti, comportamenti, agiti e pensieri.
Se la persona sta mettendo in atto una rinuncia o un affidare ad altri le proprie responsabilità, si cercherà in maniera graduale di riabituarla a prendere in mano la situazione, lasciando andare la paura di non farcela. Un pezzo alla volta per ricomporre il puzzle della propria vita.
Se a prevalere sono la rabbia o il vittimismo, si lavorerà per guidare la persona ad accogliere queste emozioni e canalizzarle in maniera funzionale, affinchè diventino risorse costruttive.
Gli obiettivi sono:
- riattivare la persona, utilizzando e puntando i riflettori su tutto quanto è dentro la persona stessa o intorno a lei, comprese le persone (familiari, amici, partner…);
- de-vittimizzare la persona, mostrandole le rinunce messe in atto, come comportamento che rafforza lo stato depressivo.
Depressione ai tempi del COVID
Il momento storico che stiamo vivendo, l’era Covid, sta vedendo crescere i bisogni legati alla salute mentale. Si registra una crescita di disturbi legati a stress e depressione conseguenti alle solitudini generate dal lockdown e dal post lockdown:
- solitudine lavorativa;
- solitudine sociale;
- solitudine economica;
- solitudine relazionale.
Tutto ciò è una normale risposta umana ad una crisi così grave che ha generato disordine e angoscia. Una crisi che ci impone cambiamenti in molteplici aspetti della nostra vita. Una crisi che ci richiama alla flessibilità e all’adattamento che normalmente caratterizzano l’essere umano.
Nell’opera “I Guermantes” del 1920, Marcel Proust ci ricorda che: “La sofferenza è una specie di bisogno dell’organismo di prendere coscienza di uno stato nuovo”.
Bibliografia
Lowen A. (1980) – La depressione e il corpo – Astrolabio Ubaldini
Nardone G. (2013) – Psicotrappole – Ponte delle grazie
Osho (2017) – Ricominciare da sé – Mondadori

L’ipocondria: dalla paura delle malattie ai “falsi” rimedi
Ipocondria è un termine che, negli ultimi tempi, è sempre più inflazionato.
Del resto, è più che naturale.
Durante questi mesi è cresciuta molto la paura delle malattie: il continuo richiamo a mantenere comportamenti prudenti e la condizione di sostanziale incertezza in cui viviamo hanno reso sempre più labile il confine tra ciò che ci sembra il giusto comportamento e l’eccessiva preoccupazione.
Fino a qualche tempo fa si definiva l’ipocondriaco un malato immaginario e come tale se ne sottovalutava la sofferenza.
In realtà l’ipocondriaco vive una sofferenza reale poiché è da lui percepita e vissuta come tale.
Per parlare di ipocondria, però, non bisogna far riferimento ad un generico timore: la preoccupazione verso la propria salute, la paura di contrarre una malattia o di presentare dei sintomi devono essere costanti e pervasive.
Cos’è dunque l’ipocondria?
Nel panorama scientifico il termine ipocondria è solo un retaggio, questo perché nel nuovo manuale diagnostico, DSM 5, corrisponde alla dicitura di disturbo da ansia da malattia ed è affiancato dal disturbo da sintomi somatici.
In quest’ultimo, i soggetti hanno livelli molto elevati di preoccupazione verso la malattia. Valutano in maniera sproporzionata i sintomi fisici, realmente presenti, percependoli come “minacciosi” per la propria salute. In questi casi, dunque, il bersaglio della paura è il sintomo che porta ad amplificare la preoccupazione per il proprio stato di salute.
Quando si parla di ansia di malattia, invece, la preoccupazione della persona è quella di avere o poter contrarre una grave malattia, anche in assenza di sintomi somatici o con presenza di sintomi molto lievi. In questi casi, il malessere della persona non proviene dal sintomo ma dal costante stato di ansia e paura.
Le “false” soluzioni
L’ipocondriaco vive una costante preoccupazione per la propria salute ed è quindi iperattento ai “segnali” corporei che vengono percepiti in modo amplificato. Per liberarsi dall’ansia e dalla paura che questa propensione genera, e per razionalizzare l’aspetto emotivo, spesso attua soluzioni non sempre funzionali. Eccone alcune:
1. Il Dott. Google
Quasi tutti nella vita siamo andati a cercare su Google le spiegazioni di un sintomo o quali potrebbero essere i sintomi per diagnosticare una malattia.
Non sempre questa si rivela una buona strategia, anzi spesso conduce ad aumentare il livello di confusione e ad amplificare l’ansia e la paura per la propria condizione di salute.
Questo perché le informazioni sono utili quando si possiedono le conoscenze per interpretarle. Quando invece tali conoscenze mancano, troppe informazioni piuttosto che chiarire i dubbi, finiscono con l’alimentarli.
2. L’Ipercontrollo
La persona tende a monitorare costantemente il proprio stato di salute (es. battiti cardiaci, pressione, ecc.). Ciò altro non fa che amplificare le paure, poiché prestare attenzione in modo costante al sintomo ne amplifica la percezione sia a livello di intensità che di frequenza di comparsa.
3. La lamentela
Si avverte il bisogno di condividere la propria paura, le preoccupazioni che rimbalzano nella mente e allora si asseconda questo bisogno parlandone con la convinzione di “liberarsi”. Questo è ciò che accade in un primo momento, ma poi le paure si risvegliano e si innesca un vero e proprio circolo vizioso che condiziona la quotidianità della persona e di chi l’ascolta.
Se stai vivendo un momento di preoccupazione per la tua salute e senti l’esigenza di avere un confronto con un professionista sappi che ogni martedì, per un periodo limitato, dalle 18:00 alle 20:00 i terapeuti del nostro team One Session si rendono disponibili per degli incontri aperti a tutti utilizzando la Terapia a Seduta Singola.
Contattaci per maggiori informazioni inviando una email a info@onesession.it oppure visita la nostra pagina Fb OneSession.it
Bibliografia
Nardone, G.;Bartoletti, A. (2018). La paura delle malattie. Psicoterapia breve strategica dell’ipocondria. Ponte alle grazie.
American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders. Washington, DC.
Psicologa e picoterapeuta in formazione. Utilizzo la terapia a seduta singola per permettere alla persone di raggiungere i propri obiettivi e massimizzare l’efficacia di ogni singolo incontro.
Ricevo a Caserta e On-line (Skype).

Perché mi capita sempre la stessa cosa?
Ti è mai capitato di sentirti “intrappolato” nel tuo problema?
Hai mai provato la sensazione che, per quanti sforzi tu possa fare, ti capiti sempre la stessa cosa?
Se hai risposto sì, forse è perché per affrontare le tue difficoltà stai mettendo in atto una tentata soluzione disfunzionale.
Quando la soluzione è il problema
Il concetto di Tentata Soluzione Disfunzionale è stato elaborato intorno agli anni ’70 dal Mental Research Institute di Palo Alto.
Questo gruppo di terapeuti si mise a studiare cosa fanno le persone quando devono affrontare un problema: ovviamente, cercano un modo per risolverlo.
Essi si accorsero, però, che spesso è proprio ciò che facciamo per migliorare una situazione a mantenerla uguale, se non addirittura a peggiorarla!
“Ma perché dovrei continuare a ripetere un comportamento che non mi aiuta?” ti starai chiedendo.
Perché la nostra mente funziona in modo schematico! Quindi, ogni volta che ci troviamo di fronte ad un problema e dobbiamo trovare una soluzione, tendiamo ad avere comportamenti che in passato hanno funzionato, generalizzandoli. Questo permette un gran risparmio a livello di energie cognitive: è molto più facile utilizzare un vecchio stratagemma che si è rivelato funzionale piuttosto che tentare nuove strade. (Nardone, 2013)
Schemi troppo rigidi
Il problema nasce quando la soluzione che in passato ha funzionato non si adatta alla situazione presente e non risolve il problema.
Che facciamo in quel caso?
Crediamo di non aver insistito abbastanza, di non aver applicato la soluzione nelle giuste dosi e quindi reiteriamo l’applicazione degli stessi schemi rigidi senza interrogarci sulla loro reale efficacia. Col fine di mantenere le cose come stanno, o di peggiorarle. (Watzlawick et al. 1974)
Facciamo un esempio
Maria teme i luoghi affollati, quindi li evita o, se proprio deve andarci, chiede di essere accompagnata.
Evitare e affidarsi all’aiuto altrui sono tentate soluzioni disfunzionali tipiche di chi soffre di stati ansiosi.
Evitare la situazione ansiogena avrà un effetto all’apparenza tranquillizzante per Maria. Dall’altra, però, è come se si stesse inviando da sola il messaggio che alcune situazioni sono troppo grandi per lei, o troppo minacciose. Allo stesso modo, chiedendo l’aiuto altrui, si racconterà di non essere in grado di potercela fare da sola.
Replicando queste soluzioni, che all’apparenza la preservano dagli stati d’ansia tanto temuti, Maria non fa altro che accumulare tensioni e messaggi negativi, con l’esito di esacerbare il suo problema.
Cosa fare quindi?
Quando le circostanze cambiano, è necessario adattarci e creare nuovi modi di affrontare le situazioni. Applicare vecchie soluzioni a nuovi problemi può venire spontaneo. Quando però notiamo che le modalità con cui affrontiamo la situazione non la migliorano, è bene interrogarsi sulle soluzioni che si stanno usando, per bloccare quelle disfunzionali e sostituirle con altre più efficaci.
Il team di Onesession è composto da psicologi formati in Terapia a Seduta Singola, che possono aiutarti ad individuare queste soluzioni disfunzionali e a trovare delle strategie di risoluzione del problema più adeguate.
Da questo mese di settembre, per un periodo limitato, ogni martedì dalle 18 alle 20 i terapeuti del nostro team One Session terranno degli incontri gratuiti aperti a tutti utilizzando la Terapia a Seduta Singola. Contattaci per maggiori informazioni https://www.onesession.it/
Riferimenti bibliografici
Nardone (2013), Psicotrappole, Ponte delle grazie
Watzawick, J.H. Weakland, R. Fisch (1974), Change, sulla formazione e la soluzione dei problemi, Casa Editrice Astrolabio, Roma
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.

La morte di un animale domestico: affrontare il lutto
Cosa rende diverso il lutto di una persona cara da quello di un animale domestico? Nulla. In entrambi i casi subiamo la perdita di un legame, perdiamo l’altro e la parte di noi legata all’altro
Tuttavia come mai il dolore per la perdita di un animale domestico è meno riconosciuto?
In occidente la morte è da sempre un tema spinoso e spesso negato. La morte di un animale, allo stesso modo, viene ignorata o addirittura considerata un evento di cui è possibile fare a meno di soffrire.
E’ davvero possibile evitare di soffrire?
La perdita della relazione con il nostro animale è equivalente, dal punto di vista psicologico, alla morte di una persona a noi cara.
Il lutto non prevede dolore di serie A e di serie B ma tuttavia, chi perde un animale d’affezione, si sente spesso delegittimato nella propria sofferenza.
Questa sorta di negazione sociale rende ancor più difficile l’elaborazione del lutto alla persona coinvolta che può sentirsi non compresa nel proprio dolore.
Una relazione speciale
Provare dolore per la morte del proprio animale domestico è una risposta sana e fisiologica essendo una perdita che coinvolge totalmente chi la subisce.
La relazione con il nostro l’animale rappresenta raramente situazioni conflittuali ma al contrario risulta essere un legame intenso, appagante e connotato d’amore incondizionato. Una relazione basata su condivisioni e abitudini giornaliere; una presenza costante che ci segue nelle nostre giornate e nel nostro percorso di vita senza chiedere nulla in cambio.
Queste caratteristiche possono rendere ancor più intenso e difficile il processo di separazione con l’animale
Cosa fare in questi casi
1. Permettiti di soffrire
Impara a sentire la sofferenza, attraversala senza nasconderla o opporvi resistenza. Bloccare il dolore non ha il potere di farlo cessare ma, al contrario, quello di aumentarlo. Non avere paura di soffrire.
2. Parlane con persone a te care
Non tacere il lutto, non vergognartene, non sentirti inadeguato/a nel tuo dolore. Rivolgiti a persone a te care che possono comprendere e ascoltare il tuo dolore. Per facilitare questa delicato passaggio esistono associazioni e gruppi di sostegno online e offline interamente dedicati alla tematica
3. Dai libero sfogo alle emozioni
Rabbia, paura, senso di vuoto e solitudine, senso di colpa, rimpianto. Ascoltati e ascolta con rispetto tutto quello che senti, accoglilo e trasformalo in qualcosa di utile per questo tuo momento.
4. Prenditi cura dei suoi effetti personali
Ciotole, cucce, giochi costituiscono una parte importante della separazione.
Nella fase iniziale è possibile radunarli in un posto protetto e circoscritto della casa in modo da non averli sempre sotto la tua attenzione per poi decidere, al tempo giusto, di donarne una parte oppure tenere qualcosa in suo ricordo.
5. Celebralo
Collegati alla morte esistono da sempre luoghi e rituali di passaggio specifici (funerale, chiesa, cimitero) che permettono alle persone di facilitare e legittimare le emozioni relative al lutto. Tuttavia per la morte del proprio animale domestico non esiste un sistema di rituali socialmente condivisi.
Per questa ragione è importante tu possa creare il tuo rituale che ti permetta di commemorare il tuo compagno di vita e favorire il passaggio attraverso cui lasciarlo andare essendogli grato/a per quello che ti ha donato
Qualora, col passare del tempo, il dolore per la perdita del tuo fidato compagno continuasse ad essere vivido, puoi rivolgerti a un professionista che possa accompagnarti in questa fase delicata.
Ogni martedì a partire da settembre, per un periodo limitato, dalle 18.00 alle 20.00, i terapeuti del nostro team One Session faranno degli incontri aperti a tutti utilizzando la Terapia a Seduta Singola.
Contattaci per maggiori informazioni.
Bibliografia
Pier Luigi Gallucci (2018), Il dolore negato. Affrontare il lutto per la morte di un animale domestico, Graphe.it Edizioni
Stefano Cattinelli & Daniela Muggia (2014), Tenersi per zampa fino alla fine. Accompagnamento empatico e cure palliative per gli animali alla fine della vita, Amrita Edizioni
Mi piace aiutare le persone a superare velocemente il proprio problema, lavorando insieme sulle soluzioni oltre le difficoltà.

Lui, lei e gli altri: come smettere di fare l’amante?
Il poeta e attore francese Jean Cocteau ci ha lasciato un bellissimo pensiero sull’amore:
“Il verbo amare è uno dei più difficili da coniugare: il suo passato non è semplice, il suo presente non è indicativo e il suo futuro non è che un condizionale”.
L’amore può essere coniugato in tanti modi differenti, ognuno dei quali ha le sue ragioni.
Ci sono coppie che condividono un progetto di vita insieme da diverso tempo, che gestiscono una vita coniugale ed una vita di coppia segreta, persone che si innamorano e intrattengono una relazione con un uomo o una donna non liberi, persone che soffrono per un tradimento subito.
Insomma un panorama vastissimo che ha come unico protagonista l’amore col suo tempo scandito da gioia e dolore, passione e gelosia, solitudine e condivisione.
Ma cosa accade a chi abbandona la ragione e il senso di morale comune e dà ascolto solo alla passione travolgente e al puro sentimento?
Non sta a noi di certo giudicare la scelta di vivere una vita in cui si è terzo rispetto ad una coppia e ad un progetto di vita altrui ma possiamo provare a pensare a come possa essere possibile e realizzabile l’interruzione di un meccanismo di ripetizione che vede una persona ricadere sempre in una relazione ambigua e in cui manca la concretezza dello stare insieme totalmente.
La storia di Barbara
Barbara ha 37 anni e da quando ne aveva 25 ha iniziato a collezionare una serie di storie “clandestine” con uomini impegnati e più grandi di lei.
È passata da una storia all’altra, in un crescendo di complicazioni e problemi da cui pare non riuscire a staccarsi.
Ha avuto solo due storie con persone coetanee e libere; la prima è stata la fugace avventura di una notte, la seconda un rapporto più duraturo: “un anno di noia” a suo dire.
Il lavoro con Barbara è appena cominciato e sta dando spunto a queste riflessioni.
Ma proviamo a capire cosa accade a chi sceglie di vivere, tra segreti e compromessi, nella veste dell’amante.
Un vero amore, che come tutti i grandi amori della letteratura, del cinema, dell’arte, della mitologia classica è ostacolato e quindi bisogna lottare e soffrire per tenerlo in vita. Una storia che diventa privilegio dunque, in quanto unica e speciale ma che vede il partner che vive nell’ombra reso fragile dall’attesa e dall’accettazione dei tempi e modi dell’altro. In pratica i classici amanti delle storie più belle e romantiche.
C’è poi chi ama vivere nell’ombra perché ne guadagna in termini di eccitazione e adrenalina che fanno da leitmotive ad un tempo sospeso tra ragione ed emozione. Ecco che la storia può diventare un rapporto duraturo nel tempo oppure un passare da una storia all’altra, alimentato dal desiderio, dalla speranza di rivivere le sensazioni che eccitano corpo e mente.
Paura dunque di investire in una storia importante? Un costume, un modo di essere o fare? Una consapevole rinuncia? Una fame di affetto e attenzioni? Un triste destino?
Chi è l’amante?
Una persona che sceglie di vivere nell’ombra accontentandosi di briciole di un amore che sembrano saziare una fame di attenzione e cura, perché crede di non poter ambire ad altro.
Un inconsapevole “terapeuta” della coppia in crisi, che con la sua presenza dà alla coppia, paradossalmente, nutrimento e nuova linfa in quanto fa da contenitore e riequilibratore.
Una persona che con leggerezza sceglie di vivere consapevolmente o inconsapevolmente una meravigliosa esperienza, a termine ma ricca di felicità e brio. Un modo quasi di tenersi lontano dal tempo che avanza e dal comune percorso del ciclo di vita.
Una realtà costante e parallela alla coppia ufficiale con la quale l’elemento tradito dovrà paradossalmente imparare a convivere per il bene della coppia stessa e il suo equilibrio.
Torniamo a Barbara…
Il suo racconto lascia intravedere una persona che preferisce vivere nell’ombra e accontentarsi pur di non dare voce ai suoi desideri e alle sue paure.
E’ stata ad oggi fatta una sola seduta che è iniziata con un lavoro di valorizzazione delle sue risorse e competenze in quanto appare forte in lei un senso di scarsa autostima che la porta a svalutare se stessa.
La terapia a seduta singola è venuta in soccorso a questo primo intervento in quanto, col suo approccio costruttivo minimalista, parte dal presupposto che la responsabilizzazione e l’incoraggiamento sono capaci di produrre nella persona un piccolo cambiamento positivo che può poi portare a cambiamenti più grandi.
Barbara mi consegna poi un’immagine molto bella che mi permette di avere in mano una chiave di lettura del suo vissuto. Insegna arte in un liceo. Pertanto utilizza un dipinto per descrivere la storia che attualmente sta vivendo e che l’ha portata qui perché ha riempito e fatto strabordare quel vaso già mezzo pieno di acqua.
Mi mostra lo screensaver del suo cellulare che ha come immagine “Il bacio” di Gustav Klimt, un dipinto sospeso nel tempo che ricordo di aver visto molti anni fa a Vienna. Una coppia stretta in un abbraccio molto appassionato in cui si vede l’uomo chinarsi sulla donna che riceve il suo bacio.
Per Barbara quel dipinto rappresenta il trionfo dell’eros e il suo grande potere di dare armonia ai conflitti tra uomo e donna; quel bisogno d’amore che la porta a mettere da parte gli aspetti negativi e a tenersi stretto un qualcosa a cui la sua insicurezza attribuisce un grande valore.
La storia di Barbara ha come obiettivo quello di interrompere un circuito di incertezza per puntare a nuove consapevolezze e nuovi obiettivi.
Barbara ha scelto di non procastinare più il suo cambiamento, di essere scelta e non alternativa.
Barbara ha scelto di coniugare il suo tempo al futuro.
Bibliografia
P.Watzlawick & G.Nardone – Terapia breve strategica
M.Recalcati – Mantieni il bacio

Scusate il ritardo!
“A verità è che a te non ti smuovono nemmeno i miracoli!”
Questa la frase che la madre di Vincenzo il protagonista del film di Massimo Troisi “Scusate il ritardo” dice al figlio e forse questa è la frase che chi ritarda potrebbe sentirsi dire da chi aspetta 10 minuti, mezz’ora o addirittura anche un’ora o più.
È capitato a tutti noi un amico/a, un fidanzato/a o un membro della famiglia che è sempre in ritardo. O magari i ritardatari siamo proprio noi!
Il ritardo potrebbe diventare un tratto caratteristico della personalità. Questo potrebbe aumentare le probabilità di perdere parecchie opportunità come offerte di lavoro, attività divertenti, amicizie e molto altro.
Marylin Monroe ha detto una volta in una sua intervista: “Agli appuntamenti sono immancabilmente in ritardo, a volte anche di due ore. Ho provato a cambiare questi miei modi, ma i motivi che mi fanno ritardare sono troppo forti e troppo piacevoli”.
Quali sono i motivi, le situazioni che fanno andare in black out il tempo del ritardatario?
Non lasciarsi travolgere dall’ansia di far presto, di arrivare ad un appuntamento importante in tempo, non farsi prendere dallo stress di raggiungere quella situazione o quella persona ad un orario preciso e stabilito…insomma vivere in modo easy e slow il proprio tempo magari decidendo addirittura di non indossare l’orologio.
Una gran bella strategia…ma gli altri? Quelli che aspettano? Come si sentono? Cosa provano dinanzi ad una mancanza di rispetto e attenzione così evidente?
La pigrizia poi, un altro freno al tempo del ritardatario. Alzarsi dal letto al mattino all’ultimo minuto, arrivare in aereoporto o in stazione poco prima che chiuda il ceck-in o che il treno parta solo perché la forza di volontà non riesce a dominare il piacere di restare a poltrire. Una pigrizia rischiosa, adrenalinica fatta di corse, fiatone ed eccitazione.
Cosa dire poi degli eterni ottimisti; quelli che: “mica trovo traffico!”, “sicuramente mi aspetteranno…”, “certo che non chiudono in orario!”, “ma cosa potrebbe mai capitarmi?”.
Gli eterni ottimisti non considerano per nulla la possibilità di un imprevisto. Seguono il proprio e altrui tempo in maniera molto serena.
L’indecisione è un altro grande ostacolo…questa situazione ci riporta immediatamente agli occhi la scena di una donna in sottoveste o in biancheria intima dinanzi all’armadio aperto e stracolmo di abiti che disperata dice: “non so cosa mettermi!” e poi c’è chi non sa se andare in macchina o in moto, chi torna indietro perché non ricorda se ha chiuso la porta o se ha preso le chiavi.
Il ritardatario sembra quasi un ribelle del tempo, un eterno ottimista che sposa uno stile di vita tranquillo e rilassato ma allo stesso tempo fatto di accelerazioni e sensi di colpa.
Uno di stile di vita molto spesso accompagnato dalla speranza o dalla promessa di non rifarlo la volta successiva. Promessa e speranza che nella maggior parte dei casi vengono tradite da situazioni esterne, stranamente sempre indipendenti dalla propria volontà.
Esistono delle strategie per “fregare” questo tempo post datato?
Sarebbe innanzitutto opportuno osservare se il ritardo è dovuto a comportamenti specifici (distrazione, pigrizia, paura di andare sotto pressione…etc.) o se magari si fa tardi sempre e solo in una circostanza ben definita o per andare in un certo luogo.
Osservare il ripetersi di un certo atteggiamento può essere utile e può aiutare a individuare le eccezioni, orientandosi così alle risorse e ai punti di forza.
Siamo sicuri che arrivare puntuali ci farebbe star meglio? Che valore e senso diamo al nostro ritardo? Cosa ci guadagniamo a far tardi? Arrivare in orario ci fa sentire in ansia o sperduti? È possibile addomesticare il nostro tempo? Ci si può chiedere spesso se è il ritardatario che ha bisogno di cambiare o se chi attende ha bisogno di rilassarsi?
Se arrivare in ritardo per te è uno stile di vita che è diventato un peso, impara a organizzarti, a dare la priorità ai vari impegni che scandiscono il tempo.
Se il tuo processo di cambiamento diventa complicato e ti accorgi di non farcela da solo/a, affidati a un professionista oppure alla visione di un buon film:
Virginia: Come faccio a sapere che ci sarai?
Mac: Se ti dico che ci sarò, ci sarò. E sono sempre puntuale.
Virginia: Sempre?
Mac: Sempre. Se ritardo, vuol dire che sono morto.
(Sean Connery e Catherine Zeta Jones nel film Entrapment, 1999)
Bibliografia
Alfonso Signorini – Marilyn. Vivere e morire d’amore – Ed. Mondadori, 2010
Diana DeLonzor – Never Be Late Again – Ed. Post Madison Pub,2002
Flavio Cannistrà, Federico Piccirilli – Terapia a seduta singola – Ed. Giunti, 2018

Superare la paura di parlare in pubblico con la Terapia a Seduta Singola
Come ti fa sentire l’idea di parlare in pubblico?
E’ una performance che riesci ad affrontare con tranquillità oppure alla sola idea cominci a sudare?
Quando ti devi esporre davanti ad altra gente, cosa provi?
La paura di parlare in pubblico è piuttosto frequente e fa parte della più grande categoria dell’ansia sociale.
Generalmente chi ha paura di parlare in pubblico ha una sedie di preoccupazioni: teme di fare una brutta figura, di dimenticare ciò che deve dire o di bloccarsi, di arrossire, di balbettare o ancora di rovinarsi la reputazione.
Ansia: eterna nemica?
L’ansia che possiamo provare quando ci troviamo in una situazione come quella che ci richiede di esporci di fronte ad altre persone, non deve essere vissuta solo come sensazione spiacevole e quindi per forza negativa.
L’ansia è energia, e nelle giuste dosi ci permette di canalizzare le nostre forze fisiche e mentali per intraprendere al meglio la prova che dobbiamo affrontare.
Atteggiamenti che mantengono il problema
Si possono riscontrare nelle persone che hanno paura di parlare in pubblico alcuni comportamenti tipici che, in chi li mette in atto, sembrano risolvere il problema, ma che in realtà non fanno che mantenerlo o esacerbarlo.
Questi comportamenti sono detti anche “tentate soluzioni disfunzionali”, e, per questo tipo di difficoltà, generalmente includono:
– evitamento: quale strategia migliore per chi teme il confronto con un pubblico, se non quella di evitare totalmente tale confronto? Sbagliato.
Questo comportamento per quanto possa sembrare una soluzione efficacissima, “mettendo in salvo” la persona dall’affrontare una situazione insopportabile, non fa altro che confermare la convinzione di essere degli incapaci, finendo per aumentarne il disagio.
– controllo delle proprie reazioni. Un altro comportamento diffuso è quello di cercare di tenere a bada le proprie reazioni fisiche tipiche dell’ansia: la persona cerca quindi di controllare il proprio rossore in viso, di rallentare il battito cardiaco, di placare la propria agitazione.
Tutto ciò causa un effetto paradossale, per cui più si cerca di prendere il controllo più lo si perde.
Strategie per riuscire a parlare in pubblico
Dopo aver analizzato cosa è meglio smettere di fare per vincere questa paura, di seguito puoi trovare alcuni suggerimenti utili per affrontare la tua platea:
– usa l’ansia a tuo vantaggio: abbiamo visto poco sopra che l’ansia non è solo negativa, ma è una fonte di energia. Prova ad usarla per migliorare la tua performance, per usare un tono di voce più deciso, per enfatizzare ciò che dici accompagnandolo con la gestualità;
– prendi confidenza con ciò che devi dire senza memorizzare: memorizzare può farti sentire più sicuro ma può anche essere un’arma a doppio taglio. Se nel recitare il discorso dimentichi una parola, è più difficile riprendere il filo. Se invece avrai confidenza con ciò che dovrai dire, anche se dovesse esserci un momento di esitazione, sarai poi in grado di tornare con facilità nel discorso.
– confessa la tua paura: puoi cominciare il tuo discorso premettendo che sei particolarmente agitato o emozionato, e scusandoti se dovesse capitare di perdere il filo. In questo modo stai togliendo dai tuoi pensieri la preoccupazione “Si accorgeranno che sono agitato?” e provocherai empatia nel tuo pubblico.
Se questi suggerimenti non dovessero bastare, puoi prendere in considerazione l’opportunità di rivolgerti ad un professionista.
Sul sito www.onesession.it puoi trovare un elenco di professionisti formati in Terapia a Seduta Singola.
A volte un solo incontro può bastare! Attraverso l’aiuto del professionista potrai individuare delle strategie “sartoriali”, su misura per te.
Bibliografia
Cannistrà F., Piccirilli F., (2018), Terapia a seduta singola. Principi e pratiche
Nardone G. (2013), Psicotrappole
Nardone G. (1998), Psicosoluzioni
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.

La Sindrome del cane San Bernardo: come smettere di dire sempre “Sì”
Rifiutare le richieste, i favori, il supporto a chi te lo chiede…sono cose che ti mettono in grande difficoltà.
Anche se hai degli impegni personali non riesci a non accontentare gli altri e, piuttosto, rinunci tu ai tuoi piani. E così ti ritrovi spesso incastrato in situazioni da cui non riesci a svincolarti per la tua innata indole di aiutare gli altri, che ti porta inevitabilmente a dire sempre di “sì”.
Proprio come un cane San Bernardo dedito al soccorso e all’aiuto anche in condizioni estreme.
Però, a volte dire un “no” è necessario e oggi ti spiego come imparare a farlo.
Se anche a te capita di non riuscire a rifiutare le richieste, questo è l’articolo che fa per te e di seguito ti suggerirò alcune strategie per imparare a dire di no senza sentirti in colpa.
3 passi per imparare a dire di “no”
Prima di descrivere i 3 passi per imparare a dire “no”, vorrei fare chiarezza su un punto fondamentale: si dice di “no” ad una domanda non ad una persona. Questa precisazione che può sembrarti banale, in realtà è ciò che tiene in vita il problema. Infatti, molto spesso, si tende ad aiutare gli altri per essere utili e per fare qualcosa di buono, ma anche per non sentirsi eventualmente in colpa. Attenzione, però, a non confondere l’altruismo con l’essere impegnati costantemente e, soprattutto, a proprio discapito, in costanti “salvataggi”.
Come fare per dire di no senza sensi di colpa?
Ecco i primi 3 passi:
1. “Scusa, vorrei tanto, ma non posso”
Da oggi, una volta al giorno per due settimane, mettiti in una situazione in cui qualcuno ha una richiesta da farti: può essere una chiacchierata con un amico che ti chiede un prestito, con un collega che ti chiede un cambio turno oppure una richiesta di un membro della tua famiglia e prova a rispondere “Scusa, vorrei tanto, ma non posso”. Con questa frase puoi permetterti di dire di no alla richiesta che ti viene fatta puntando sul fatto che il rifiuto non dipende da te, ma dai tuoi impegni. Evita di far seguire delle spiegazioni, e se proprio l’altro è insistente accampa una scusa vaga – e se insiste mostrati pure infastidito.
È chiaro che non sempre sarà possibile ogni giorno trovare una situazione in cui qualcuno ti fa una richiesta. L’importante, però, è che ti metti in gioco: se lo fai solo per 2 o 3 volte non serve a nulla.
2. “Scusa, potrei farlo, ma in questo momento ho cose più importanti di cui occuparmi”
Quando ti sentirai sicuro di aver fatto tuo il primo passo e ti sentirai più sciolto nel non assecondare ogni richiesta, potrai passare ad un gradino più in alto rispondendo “Scusa, potrei farlo, ma in questo momento ho cose più importanti di cui occuparmi”. Rimane sempre l’idea che ci sia un impegno che ti impedisce di accogliere la richiesta dell’altro, ma in più c’è anche un elemento di scelta, perché stai dando una priorità alle tue cose da fare piuttosto che alle sue.
Anche qui, esercitati per due settimane e fai tuo questo nuovo modo di fare.
3. “Potrei aiutarti, ma non mi va”
Adesso è giunto per te il momento di mettere in pratica il terzo passo, rispondendo “Potrei aiutarti, ma non mi va”, mettendo la museruola al Cane San Bernardo che è in te.
Con l’esercizio costante ti renderai conto che ti verrà molto più facile dire di no quando non puoi, non vuoi o semplicemente non ti va, facendo di conseguenza anche cambiare la prospettiva che gli altri hanno di te e, chissà, magari si mostreranno anche più sensibili rispetto a quelle che sono le tue richieste ed esigenze.
E ricorda: se dici di no, non sei una persona cattiva!
Se ti rendi conto di aver bisogno di un aiuto in più con l’apprendimento del dire “no”, puoi sempre contattare uno Psicologo formato in Terapia a Seduta Singola che può aiutarti già dopo un unico incontro.
Cerca sul nostro sito https://www.onesession.it/il terapeuta più vicino a te (o anche online) e più adatto alle tue esigenze.
Se vuoi rimanere aggiornato iscriviti alla nostra Pagina Facebook.
Bibliografia
Sellin, R. (2015). Le persone sensibili sanno dire no. Milano: Feltrinelli.
Sono una Psicologa, specializzata in Dipendenze da sostanze, comportamentali (gioco d’azzardo, shopping, ecc) e relazionali (dipendenza affettiva). Sono formata all’utilizzo della Terapia a Seduta Singola (TSS) e della Terapia Centrata sulla Soluzione, per aiutare le persone a risolvere i loro problemi e tornare al benessere nel più breve tempo possibile, imparando a scoprire e sfruttare al meglio tutte le loro risorse.

Sonno disturbato ai tempi del Coronavirus
Capita anche a te di fare sogni più strani del solito? Stai probabilmente sperimentando un nuovo fenomeno: i sogni pandemici da Coronavirus.
La pandemia da Covid-19, infatti, sta influenzando il modo in cui sogniamo a causa degli elevati livelli di stress a cui siamo sottoposti in questo periodo di isolamento forzato.
In questo periodo di auto-isolamento, per molte persone, il materiale onirico appare più inquietante, i risvegli sono frequenti e la qualità del sonno è ridotta.
Cosa sta succedendo?
Le emozioni esperite durante la giornata possono influenzare quello che sogniamo durante la notte. L’Associazione Italiana di Medicina del Sonno (AIMS), che sta studiando la qualità del sonno degli italiani in quarantena, ritiene che molti soggetti stiano facendo incubi in linea con i sintomi del Disturbo da Stress Post Traumatico.
I sogni cambiano perché, in questo periodo particolare, il cervello cerca di indurre la rielaborazione dell’esperienza traumatica attraverso il materiale onirico. Non a caso, alcune persone, rievocano durante la notte parti dell’evento traumatico. Sognano, ad esempio, di aver contratto il virus o di perdere la vita. Altri invece fanno sogni bizzarri ricchi di elementi simbolici. La paura del virus, in questo caso, viene sostituita da elementi metaforici come insetti, mostri, catastrofi naturali e così via.
<L’oggetto della nostra paura, il virus, è invisibile e necessita di essere visualizzato in qualcosa di concreto> Deirdre Barrett, Harvard University
Tuttavia i sogni non bastano. Potrebbero essere inoltre un campanello di allarme, se frequenti, disturbanti e protratti nel tempo, di stati di ansia e di stress che vanno affrontati direttamente.
Possiamo iniziare a prenderci cura dei nostri sogni (e di noi stessi) partendo dal benessere che sperimentiamo durante la veglia.
In questo articolo ti fornisco 4 indicazioni che ti permettano di affrontare meglio questo momento critico e gestire lo stress ad esso collegato:
1. Focalizzati su quello che fai durante le giornate
Introduci piccoli cambiamenti in positivo. Aggiungi piccoli momenti di piacere che possano rendere bella la tua giornata. Se preferisci puoi fare un programma quotidiano dei momenti di piacere e spuntare a fine giornata quelli che hai messo in atto
2. Prenditi 15 minuti al giorno per scrivere
Le tue preoccupazioni, le tue paure e i tuoi pensieri. Lo stesso tempo dovrebbe essere dedicato, e circoscritto, per la ricerca delle informazioni sulla situazione attuale. Non dedicarci più di 15 minuti. Decidi tu quando farlo e come farlo
3. Riduci lo stress per alleggerire la mente
Esercizi di rilassamento e/o mindfulness possono essere buoni alleati durante il giorno. Anche solo la respirazione diaframmatica può aiutarti a ri-centrarti e focalizzarti sul qui e ora. La respirazione 4-7-8 può invece aiutarti, prima di dormire, ad indurre un rilassamento profondo
4. Riscrivi il sogno e cambia il finale
Come avresti voluto che andasse? Se ci sono dei sogni che ti hanno particolarmente disturbato, riscrivili in positivo e inizia da qui la tua giornata
Se lo stress e l’ansia non passano ma iniziano ad essere invalidanti, lo psicologo può aiutarti a superare la tua momentanea difficoltà.
In particolare la Terapia a Seduta Singola condensa in un solo incontro efficacia e efficienza per permetterti di sperimentare benefici sin dal primo incontro. Contatta, cercandolo sul nostro sito www.onesession.it, il terapeuta formato in Terapia a Seduta Singola più vicino a te.
Bibliografia
Deirdre, Barrett, Creative Dreams that Change Our Lives, In Dreams that Change Our Lives, R. Hoss & R. Gongloff (Eds) Chiron Publications, Ashville, NC. 2017.
Deirdre, Barrett, The “Committee of Sleep”: A Study of Dream Incubation for Problem Solving, In Dreaming, Vol. 3, No. 2, 1993
Ellemarije Altena , Chiara Baglioni, Colin A. Espie, Jason Ellis, Dimitri Gavriloff, Brigitte Holzinger, Angelika Schlarb, Lukas Frase, Susanna Jernelöv, and Dieter Riemann, Dealing with sleep problems during home confinement due to the COVID-19 outbreak: practical recommendations from a task force of the European CBT-I Academy, Journal of Sleep Research, 10.1111/jsr.13052.
Rebecca Renner, (April 15, 2020), The pandemic is giving people vivid, unusual dreams. Here’s why. Researchers explain why withdrawal from our usual environments -due to social distancing- has left dreamers with a dearth of “inspiration.”, Science, National Geographic.
Mi piace aiutare le persone a superare velocemente il proprio problema, lavorando insieme sulle soluzioni oltre le difficoltà.

Decisione difficile? La terapia a seduta singola può aiutarti a scegliere
Sei una persona indecisa? Devi prendere una decisione importante e non sai proprio che pesci prendere?
Forse qui puoi trovare una soluzione efficace per te.
Prima di continuare, è importante sottolineare un aspetto che in questo momento, forse, stai sottovalutando: noi decidiamo ogni giorno, continuamente.
Alcune scelte sono semplici, e le adottiamo in modo automatico, basandoci sulle nostre esperienze pregresse (che strada fare per andare a scuola o a lavoro) o sulle nostre preferenze (con che cosa fare colazione).
Quello che però vale la pena ricordare è che dalla scelta più banale a quella più difficile, il processo decisionale che adottiamo è pressoché lo stesso.
Che sia il pranzo o la carriera accademica, noi scegliamo attraverso processi di “selezione”, che scartando differenti opzioni, ci conducono a definire quale sia, per noi, la soluzione ideale.
Perché allora, se il processo è lo stesso, in alcuni casi è così difficile decidere?
I motivi possono essere tantissimi: perché non abbiamo le idee chiare, perché la decisione che “sentiamo” di dover prendere può avere delle conseguenze che possono ferire qualcuno a cui teniamo, perché entrambe le opzioni che abbiamo di fronte ci sembrano allettanti, o al contrario perché ci troviamo a dover scegliere il “male minore”.
In generale, quando ci troviamo di fronte ad una scelta “difficile”, può entrare in gioco la paura. Studi sui processi decisionali hanno individuato alcune categorie generali di paure che insorgono quando dobbiamo prendere una decisione.
Tra queste, particolarmente rilevanti sono la paura di esporsi, paura di sbagliare, di non essere all’altezza o del giudizio negativo degli altri.
Queste paure incidono sulle nostre capacità di scelta alimentando la nostra indecisione e, a volte, i nostri dubbi.
Malgrado sia spesso visto con sospetto, il dubbio ha in realtà una funzione estremamente positiva: ci permette di incrementare la nostra visione, prendere in considerazione altre prospettive, altre possibili scelte e valutare con attenzione le conseguenze delle nostre decisioni.
A volte, tuttavia, può capitare che il dubbio comporti un blocco della nostra facoltà decisionale andando ad incidere negativamente sulla nostra qualità della vita, sul nostro benessere e sulla nostra autoefficacia, soprattutto nei frequenti casi in cui il dubbio “contagia” anche scelte che, in altre occasioni, avremmo preso senza troppe preoccupazioni, come se ogni risposta generasse un nuovo dubbio, trascinandoci in una sorta di circolo vizioso.
Cosa fare in questi casi?
Con la terapia a seduta singola ci sono molti modi per aiutare la persona ad individuare il metodo di scelta più adatto alle proprie esigenze.
L’efficacia della terapia a seduta singola è data dal fatto che si basa sull’unicità della persona, sulle sue risorse e sui suoi valori.
Anche quando la problematica può essere generalizzata (in questo caso la difficoltà di prendere una decisione), ogni persona affronta il problema in modo diverso, e ogni situazione è pressoché unica, quindi non c’è una ricetta uguale per tutti.
Se vuoi provare ad arrivare alla decisione autonomamente ma stai avendo difficoltà sappi che la scrittura ti può aiutare.
Se hai già provato a fare la lista dei pro e dei contro o ad attribuire un valore numerico alle varie opzioni e non è servito a nulla, continua a leggere perché quello che ti suggerisco è un po’ diverso.
Conversazioni con…uno sconosciuto
Una soluzione efficace può essere infatti quella di scrivere i tuoi pensieri, immaginando di avere una conversazione con uno sconosciuto.
Questo ti porterà ad essere quanto più chiaro possibile: quando parliamo con una persona che non ci conosce dobbiamo cercare di spiegare bene, in modo sintetico, non solo “il dubbio” e la scelta che dobbiamo prendere, ma anche le condizioni da cui partiamo e quali conseguenze immaginiamo che la scelta possa avere sulla nostra vita.
Il potere della scrittura è veramente forte e questa soluzione può essere veramente efficace se adottata nelle giuste modalità.
Attenzione ai dettagli
Scegli un “momento” da dedicare a questa soluzione: può volerci del tempo, e quindi è necessario che tu definisca con anticipo un preciso giorno ed una precisa ora da dedicare a quest’attività.
Scegli un luogo: è un momento che dedichi a te, e in quanto tale, dev’essere tuo, privo di distrazioni ed interferenze.
Scrivere ti permetterà di avere una visione molto più chiara sia delle tue emozioni sia dei dati oggettivi che stai valutando. Soprattutto, ti permetterà di stabilire se sei d’accordo con quanto hai affermato in quello che hai scritto e guardare la tua condizione da una nuova prospettiva.
Se neanche questa modalità funziona e “il blocco decisionale” invade le tue giornate generandoti ansia e preoccupazione, puoi rivolgerti ad uno psicologo formato in terapia a seduta singola con il quale potrai individuare la soluzione più adatta per la tua persona e per la tua concreta necessità, già a partire dal primo e, in molti casi, unico incontro.
Roberta Miele
Bibliografia
Nardone, G. (2014). La paura delle decisioni. Come costruire il coraggio di scegliere per sé e per gli altri. Milano: Ponte alle Grazie
Cannistrà F., Piccirilli F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Giunti Psychometrics
Psicologa e picoterapeuta in formazione. Utilizzo la terapia a seduta singola per permettere alla persone di raggiungere i propri obiettivi e massimizzare l’efficacia di ogni singolo incontro.
Ricevo a Caserta e On-line (Skype).

Smettere di procrastinare: alcuni consigli
Quante volte ti è capitato di dire “Lo faccio dopo, tanto c’è tempo” e poi trovarti all’ultimo con una serie di compiti da portare a termine ancora da iniziare?
Cos’è la procrastinazione?
La procrastinazione è la tendenza a rimandare continuamente i propri doveri, trovandosi ad affrontarli all’ultimo minuto, con una serie di conseguenze negative sia per la performance che per la propria autostima (Dewitte e Schouwenburg, 2002). Anche se la credenza dei procrastinatori è del tipo “Lavoro meglio sotto pressione”, in realtà le loro performance “dell’ultimo minuto” sono qualitativamente minori rispetto a chi si prende per tempo. Questo inficia anche sull’umore, potendo portare a fare emergere sintomi ansiosi e depressivi.
A tutti capita di rimandare di tanto in tanto, ma per qualcuno può essere una vera e propria abitudine difficile da eliminare.
Ecco alcuni suggerimenti che ti possono aiutare a smettere di procrastinare
1. Fai chiarezza
Spesso avere in mente i compiti da portare a termine può non bastare e creare confusione.
Un buon modo di fare chiarezza è quello di mettere nero su bianco ciò che devi fare: fai una lista dei tuoi doveri annotando anche entro quando li devi compiere.
Mano a mano che li porti a termine, cancellali dalla lista; questo ti aiuterà a vedere i tuoi successi e aumenterà la motivazione e il senso di autoefficacia (Tracy, 2008)
2. Priorizza
Non c’è da illudersi: se pensi di cominciare a dedicarti alle tue scadenze a lungo termine “non appena avrai finito di dedicarti a tutto il resto” non comincerai mai.
Le cose da fare saranno sempre più del tempo a disposizione per farle, quindi la prima chiave è priorizzare.
Nella tua “to do list” identifica le attività molto importanti, quelle mediamente importanti, quelle carine da fare ma non necessarie, quelle delegabili e infine quelle eliminabili. Parti dalle prime e via via prosegui verso le successive.
3. Un passo alla volta
Limita l’investimento che stai chiedendo a te stesso, cominciando a piccoli passi. La guru dell’economia domestica Marla Cilley suggerisce questo semplice metodo per affrontare compiti spiacevoli, come pulire casa: imposta un timer a 5 minuti e datti al riordino finché non suona.
Non sembra pesante, giusto?
Certo, in 5 minuti non riuscirai a pulire tutta casa, ma avrai dato inizio al cambiamento! E cominciare è molto più difficile che continuare.
Questo metodo può essere utilizzato in tutte le attività che fatichi ad intraprendere. (Heat, 2010)
4. Prepara l’ambiente
Sarà più difficile procrastinare se avrai tutto ciò che ti serve a tua disposizione.
Prepara la tua postazione con il necessario per portare a compimento i tuoi doveri, senza la necessità di alzarti per prendere materiale mancante.
Cerca di creare il tuo spazio di lavoro in modo che sia confortevole ma anche attrattivo, che ti invogli a lavorarci.
5. Agganciati ad azioni che farai con certezza
Lo psicologo Gollwitzer le chiama “action-trigger” (in italiano, letteralmente “azioni-innesco”): sono eventi che sicuramente avverranno, in seguito alle quali viene suggerito di immaginare un compito che tendi a procrastinare.
Facciamo un esempio: continui a rimandare l’iscrizione in palestra. Potresti dirti “domattina, dopo che ho portato fuori il cane, mi iscriverò in palestra”.
L’azione “portare fuori il cane” è certa e domattina ti farà da innesco per iscriverti in palestra.
Attenzione, però: questo non significa che semplicemente immaginare di fare un’azione ti porterà sicuramente a farla. Devi essere anche motivato.
Se questi consigli non dovessero bastare, puoi pensare di rivolgerti ad uno specialista. Sul sito www.onesession.it puoi trovare un elenco di professionisti formati in Terapia a Seduta Singola che possono aiutarti a raggiungere i risultati sperati!
Bibliografia:
Heat & Heat (2010), Switch, How to Change Things when Change is Hard
Tracy (2008), Eat that frog, 21 Great Ways to Stop Procrastinating and Get More Done in Less Time
Dewitte S., Schouwenburg H.C., (2002), Procrastination, Temptations, and Incentives:The Struggle between the Present and the Future in Procrastinators and the Punctual, European Journal of personality, 16: 469-489
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.