
Le ferite (invisibili) dell’autolesionismo
Cos’è l’autolesionismo?
Scena: un ragazzo di 15 anni in bagno al piano di sopra, i genitori in salotto con la tv accesa. Il ragazzo si alza le maniche della felpa, toglie il polsino che usa per giocare a basket e apre il mobiletto. Prende una lametta e si taglia.
Sul volto di chi legge sarà comparsa un’espressione di dolore o paura, ma le ricerche ci dicono che il fenomeno dell’autolesionismo è sempre più diffuso.
Attenzione, però, non tutti i fenomeni sono uguali.
Nel dettaglio, qui si parla di autolesionismo non suicidario, che nell’ultima versione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-5) tale fenomeno è definito Not Suicidal Self Injury (NSSI).
Alla base del gesto autolesivo, quindi, non c’è intenzione suicidaria.
Nel DSM-5, leggendo i criteri diagnostici, emerge che tra gli scopi dell’autolesionista possono rientrare quello di ottenere sollievo da una sensazione o da uno stato cognitivo negativo, risolvere una difficoltà interpersonale o anche la ricerca da parte dell’autolesionista di una sensazione positiva (APA, 2014).
L’autolesionismo è inoltre associato ad uno o più dei seguenti sintomi:
- Difficoltà interpersonali, stati di ansia, tensione e rabbia precedenti alla condotta autolesiva.
- Preoccupazione difficilmente controllabile riguardo al gesto autolesivo che si intende attuare.
- Pensieri autolesivi presenti anche quando la condotta autolesiva non viene agita.
L’autolesionista, quindi, vive una condizione di difficoltà che cerca di risolvere.
Non è possibile isolare un’unica causa poiché si tratta di elementi estremamente soggettivi che possono spaziare da difficoltà che non si riescono a gestire a problematiche interpersonali che possono riferirsi ai differenti sistemi sociali in cui la persona è inserita: vita familiare, gruppo dei pari, società.
Qual è la fascia d’età più colpita e quali sono i comportamenti autolesivi più frequenti?
Torniamo alla descrizione della scena iniziale, il ragazzo ha quindici anni.
È tra i giovani adolescenti, infatti, che il fenomeno è maggiormente diffuso.
I dati sull’incidenza dell’autolesionismo ci rivelano che la fascia d’età più colpita va tra gli 11 e i 14 anni. In Italia le ricerche su soggetti non clinici stimano che l’incidenza del fenomeno varia tra il 13% e 41,5% negli adolescenti senza la predominanza di uno dei due generi (Di Pierro et al., 2012).
Ricerche dimostrano, infatti, che sempre più adolescenti presentano questa tipologia di comportamenti, e che, tra essi, sono frequenti i casi di gesti autolesionistici condotti in modo ripetuto.
Qui occorre, una ulteriore precisazione, perché c’è una differenza tra autolesionismo occasionale e autolesionismo reiterato.
Lo stesso DSM-5 prevede per la diagnosi che la persona abbia compiuto in un anno almeno 5 condotte autolesive che, è bene ribadirlo, non abbiano generano ferite tali da mettere a rischio la vita della persona.
L’atto lesionista può assumere differenti forme, le più diffuse delle quali sono procurarsi ferite con un oggetto affilato (cutting), provocarsi bruciature o ustioni (burning), marchiarsi con oggetti roventi (branding) ma anche graffiarsi, colpirsi e rallentare volutamente la guarigione di una ferita.
L’autolesionismo ai tempi del Web
Questo fenomeno, fino a qualche tempo fa, era meno conosciuto e praticato.
Nell’ultimo decennio con il boom dei social network anche questo tema ha trovato il suo spazio nel mondo digitale, divenendo così sempre più conosciuto.
La velocità con la quale oggi è possibile divulgare informazioni sul tema ha rappresentato, a conti fatti, un’arma a doppio taglio.
Da un lato sono nati numerosi siti informativi di auto-aiuto (self-help) oppure volti a reindirizzare ad un supporto professionale, dall’altro sono aumentati i siti o le pagine social che stimolano il lettore ad attuare gesti autolesivi. I messaggi sono ambigui, violenti e contagiosi anche se, “ufficialmente” presentati come iniziative volte a contrastare il fenomeno (Boyd et al., 2011).
I risultati dimostrano quanto il “web” generi “impatti reali” nella vita dell’autolesionista: se da un lato è stato dimostrato che la partecipazione a gruppi di supporto online possa diminuire la frequenza e la severità delle condotte autolesive.
L’accedere a contenuti che stimolano la conoscenza di nuove forme di autolesionismo o la condivisione dei gesti auto-inflitti può radicare maggiormente il fenomeno finendo per normalizzarlo e rinforzarlo.
Se nelle statistiche globali, come detto, il fenomeno investiva ugualmente i generi, non è così per il mondo del web.
Sono infatti le ragazze tra i 12 ed i 20 anni ad usare principalmente internet per parlare del tema, con contenuti che spaziano dalla descrizione dettagliata dei propri atti autolesivi alla pubblicazione di foto e video (Niwa e Mandrusiak.;2012).
L’aggregazione di simili contenuti, l’immedesimazione nelle storie dell’altro o la vista di immagini di ferite “simili alle mie” non fanno altro che rafforzare l’agire del lettore che si sentirà compreso.
Quali sono le cause?
Come già sottolineato, non c’è un unico elemento scatenante.
La condizione è estremamente soggettiva.
Quello che è certo e che l’autolesionista viva una condizione di disequilibrio personale ed il più delle volte sono restii alla richiesta d’aiuto.
Centrale, tuttavia, è che l’atto autolesionista rappresenta, di per sé, un gesto che la persona compie perché vive una condizione di malessere.
Non è funzionale alla “soluzione” del problema ma in qualche modo a “lenire” lo stato di difficoltà cognitiva ed emozionale che vive.
Non esistono quindi “ricette” per risolvere comportamenti autolesionistici, perché essi vanno affrontati sulla base delle esigenze e delle difficoltà che spingono la persona ad attuarli.
Di certo, sia che tu stia vivendo questa condizione in prima persona, sia che tu abbia il dubbio che qualcuno a te vicino attui condotte autolesive e credi di aver bisogno di confrontarti con un professionista, fallo.
Ogni martedì per un periodo limitato, dalle 18.00 alle 20.00, i terapeuti del nostro team One Session si rendono disponibili per degli incontri aperti a tutti utilizzando la Terapia a Seduta Singola. Contattaci per maggiori informazioni inviando una email a info@onesession.it oppure visita la nostra pagina Fb OneSession.it.
Riferimenti bibliografici
A.P.A. American Psychiatric Association. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Milano: Raffaello Cortina, 2014.
Di Pierro, R., Sarno, I., Perego, S., Gallucci, M., Madeddu, F. (2012). Adolescent nonsuicidal self-injury: the effects of personality traits, family relationships and maltreatment on the presence and severity of behaviours. Eur Child Adolesce Psychiatry.
Boyd, D., Jenny, R., Leavitt, A. (2011). Pro-self-harm and the visibility of youth-generated problematic content. I/S: A Journal of Law and Policy for the Information Society.
Niwa, K.D., Mandrusiak, M.N. (2012). Self-Injury Groups on Facebook. Canadian Journal of Counselling and Psychotherapy.
Psicologa e picoterapeuta in formazione. Utilizzo la terapia a seduta singola per permettere alla persone di raggiungere i propri obiettivi e massimizzare l’efficacia di ogni singolo incontro.
Ricevo a Caserta e On-line (Skype).

Vuoi migliorare la tua autostima? Ecco 3 errori da evitare
Parlare di autostima è tutt’altro che semplice!
Infatti, tutt’altro che semplice è il concetto di autostima.
A questo concetto si legano tante riflessioni, teorie, altri concetti che volerlo riassumere in pochi passi è davvero riduttivo.
In questo articolo, quindi, mi limiterò a indicare 3 errori comuni quando si vuole migliorare la propria autostima.
Iniziamo però a fare una precisazione. Spesso un errore “a monte” è proprio nel concetto stesso di autostima.
Mi spiego meglio: auto-stima è la capacità di dare una stima di se stessi. Ma come possiamo noi stessi essere oggettivi quando definiamo la stima di quello che siamo? È come chiedere ad un fruttivendolo se la sua frutta è di qualità. Vien da sé che il rischio è quello per il quale ciò che influenza la nostra auto-stima è l’autostima stessa: se è bassa, daremo valutazioni di noi tendenzialmente basse, se è alta faremo il contrario.
Proprio per questo, un ulteriore metodo che utilizziamo per capire il nostro “valore” sono gli occhi degli altri ed in particolare la stima che gli altri hanno (o pensiamo che abbiano) nei nostri confronti.
Ed proprio cercando di guardare noi stessi con gli occhi degli altri che possiamo commettere diversi errori, almeno 3.
1. Evitare
Chi ha una bassa autostima sperimenta una scarsa fiducia in se stesso e un forte senso di autocritica. Questo atteggiamento mentale lo porta a vedere il mondo pieno di sfide difficili per lui. Il che spesso induce ad arrendersi troppo facilmente di fronte alle difficoltà e a evitare le situazioni,
Immagino che ti sarà capitato di evitare qualche situazione in cui non ti sentivi a tuo agio oppure in cui sentivi addosso il giudizio e gli occhi degli altri. Evitare quella situazione in un primo momento ti avrà senza dubbio dato sollievo, ma a lungo andare ha confermato il fatto che non fossi sicuro di te e che non fossi abbastanza. Con la conseguenza che a rimetterci è stata proprio la tua autostima.
La persona con poca autostima, temendo di non essere all’altezza degli altri o di essere giudicata inadeguata (non abbastanza attraente, simpatica o intelligente) tende a chiudersi in se stessa. Questo permette di realizzare la profezia del rifiuto sociale con il rischio di andare incontro a una profonda solitudine.
2. Chiedere e ricercare conferme
Un rischio connesso a questa modalità di acquisire autostima è quello di muoversi nel mondo in un’ottica di perfezionismo: darsi degli standard elevatissimi è una trappola nella quale spesso le persone cadono e dalla quale faticano ad uscire. Si possono ricercare conferme nella cura di sé (rispetto al proprio aspetto fisico ed estetico), nel proprio lavoro o nella propria carriera scolastica, nel mondo delle relazioni.
3. Dire sempre di sì
Nel tentativo di piacere di più agli altri o di apparire più socievole e altruista cerchi di renderti sempre disponibile a soddisfare i bisogni e le esigenze degli altri. Quindi, anche se sei sommerso di impegni fai molta fatica a dire no, oppure riesci a dirlo ma poi ti senti in colpa. Assecondi le richieste nell’illusione che dal loro consenso altrui ne puoi trarre beneficio per la tua autostima e quindi un giudizio positivo nei tuoi confronti ed una conferma del tuo valore.
La convinzione che si cela dietro all’incapacità di dire “NO” è che quel “NO” sarà percepito dall’altro come un rifiuto che porterà l’altro a non volerti più bene, a non vederti più come bravo, simpatico e disponibile e ad allontanarti, quindi, da sé e dalla sua vita.
In realtà, non è così.
Devi comprendere che il potere che l’altro ha su di te è il prodotto dalla tua disistima: il poco valore che ti dai, fa sì che l’altro ti appaia più meritevole di attenzioni, più importante dei tuoi bisogni e della tua volontà.
Quindi, il dire sempre sì non fa altro che mantenere in vita e peggiorare il tuo problema, confermandoti che il tuo valore non poi così elevato, dando una sferzata (in negativo) alla tua autostima.
Se vuoi migliorare la tua autostima ed interrompere in modo definitivo questi errori, sappi che ogni martedì, per un periodo limitato, dalle 18:00 alle 20:00 gli Psicologi e gli Psicoterapeuti del nostro team One Session si rendono disponibili per degli incontri gratuiti aperti a tutti utilizzando la Terapia a Seduta Singola.
Contattaci per maggiori informazioni inviando una email a info@onesession.it oppure visita la nostra pagina Fb OneSession.it
Bibliografia
Branden, N. (2006). I sei pilastri dell’autostima. Milano: Tea.
Nardone, G. (2009). Problem solving strategico da tasca. Milano: Ponte alle Grazie.
Rampin, M. (2014). Nel mezzo del casin di nostra vita. Milano: Ponte alle Grazie.
Sono una Psicologa, specializzata in Dipendenze da sostanze, comportamentali (gioco d’azzardo, shopping, ecc) e relazionali (dipendenza affettiva). Sono formata all’utilizzo della Terapia a Seduta Singola (TSS) e della Terapia Centrata sulla Soluzione, per aiutare le persone a risolvere i loro problemi e tornare al benessere nel più breve tempo possibile, imparando a scoprire e sfruttare al meglio tutte le loro risorse.

Sonno disturbato ai tempi del Coronavirus
Capita anche a te di fare sogni più strani del solito? Stai probabilmente sperimentando un nuovo fenomeno: i sogni pandemici da Coronavirus.
La pandemia da Covid-19, infatti, sta influenzando il modo in cui sogniamo a causa degli elevati livelli di stress a cui siamo sottoposti in questo periodo di isolamento forzato.
In questo periodo di auto-isolamento, per molte persone, il materiale onirico appare più inquietante, i risvegli sono frequenti e la qualità del sonno è ridotta.
Cosa sta succedendo?
Le emozioni esperite durante la giornata possono influenzare quello che sogniamo durante la notte. L’Associazione Italiana di Medicina del Sonno (AIMS), che sta studiando la qualità del sonno degli italiani in quarantena, ritiene che molti soggetti stiano facendo incubi in linea con i sintomi del Disturbo da Stress Post Traumatico.
I sogni cambiano perché, in questo periodo particolare, il cervello cerca di indurre la rielaborazione dell’esperienza traumatica attraverso il materiale onirico. Non a caso, alcune persone, rievocano durante la notte parti dell’evento traumatico. Sognano, ad esempio, di aver contratto il virus o di perdere la vita. Altri invece fanno sogni bizzarri ricchi di elementi simbolici. La paura del virus, in questo caso, viene sostituita da elementi metaforici come insetti, mostri, catastrofi naturali e così via.
<L’oggetto della nostra paura, il virus, è invisibile e necessita di essere visualizzato in qualcosa di concreto> Deirdre Barrett, Harvard University
Tuttavia i sogni non bastano. Potrebbero essere inoltre un campanello di allarme, se frequenti, disturbanti e protratti nel tempo, di stati di ansia e di stress che vanno affrontati direttamente.
Possiamo iniziare a prenderci cura dei nostri sogni (e di noi stessi) partendo dal benessere che sperimentiamo durante la veglia.
In questo articolo ti fornisco 4 indicazioni che ti permettano di affrontare meglio questo momento critico e gestire lo stress ad esso collegato:
1. Focalizzati su quello che fai durante le giornate
Introduci piccoli cambiamenti in positivo. Aggiungi piccoli momenti di piacere che possano rendere bella la tua giornata. Se preferisci puoi fare un programma quotidiano dei momenti di piacere e spuntare a fine giornata quelli che hai messo in atto
2. Prenditi 15 minuti al giorno per scrivere
Le tue preoccupazioni, le tue paure e i tuoi pensieri. Lo stesso tempo dovrebbe essere dedicato, e circoscritto, per la ricerca delle informazioni sulla situazione attuale. Non dedicarci più di 15 minuti. Decidi tu quando farlo e come farlo
3. Riduci lo stress per alleggerire la mente
Esercizi di rilassamento e/o mindfulness possono essere buoni alleati durante il giorno. Anche solo la respirazione diaframmatica può aiutarti a ri-centrarti e focalizzarti sul qui e ora. La respirazione 4-7-8 può invece aiutarti, prima di dormire, ad indurre un rilassamento profondo
4. Riscrivi il sogno e cambia il finale
Come avresti voluto che andasse? Se ci sono dei sogni che ti hanno particolarmente disturbato, riscrivili in positivo e inizia da qui la tua giornata
Se lo stress e l’ansia non passano ma iniziano ad essere invalidanti, lo psicologo può aiutarti a superare la tua momentanea difficoltà.
In particolare la Terapia a Seduta Singola condensa in un solo incontro efficacia e efficienza per permetterti di sperimentare benefici sin dal primo incontro. Contatta, cercandolo sul nostro sito www.onesession.it, il terapeuta formato in Terapia a Seduta Singola più vicino a te.
Bibliografia
Deirdre, Barrett, Creative Dreams that Change Our Lives, In Dreams that Change Our Lives, R. Hoss & R. Gongloff (Eds) Chiron Publications, Ashville, NC. 2017.
Deirdre, Barrett, The “Committee of Sleep”: A Study of Dream Incubation for Problem Solving, In Dreaming, Vol. 3, No. 2, 1993
Ellemarije Altena , Chiara Baglioni, Colin A. Espie, Jason Ellis, Dimitri Gavriloff, Brigitte Holzinger, Angelika Schlarb, Lukas Frase, Susanna Jernelöv, and Dieter Riemann, Dealing with sleep problems during home confinement due to the COVID-19 outbreak: practical recommendations from a task force of the European CBT-I Academy, Journal of Sleep Research, 10.1111/jsr.13052.
Rebecca Renner, (April 15, 2020), The pandemic is giving people vivid, unusual dreams. Here’s why. Researchers explain why withdrawal from our usual environments -due to social distancing- has left dreamers with a dearth of “inspiration.”, Science, National Geographic.
Mi piace aiutare le persone a superare velocemente il proprio problema, lavorando insieme sulle soluzioni oltre le difficoltà.

Smettere di procrastinare: alcuni consigli
Quante volte ti è capitato di dire “Lo faccio dopo, tanto c’è tempo” e poi trovarti all’ultimo con una serie di compiti da portare a termine ancora da iniziare?
Cos’è la procrastinazione?
La procrastinazione è la tendenza a rimandare continuamente i propri doveri, trovandosi ad affrontarli all’ultimo minuto, con una serie di conseguenze negative sia per la performance che per la propria autostima (Dewitte e Schouwenburg, 2002). Anche se la credenza dei procrastinatori è del tipo “Lavoro meglio sotto pressione”, in realtà le loro performance “dell’ultimo minuto” sono qualitativamente minori rispetto a chi si prende per tempo. Questo inficia anche sull’umore, potendo portare a fare emergere sintomi ansiosi e depressivi.
A tutti capita di rimandare di tanto in tanto, ma per qualcuno può essere una vera e propria abitudine difficile da eliminare.
Ecco alcuni suggerimenti che ti possono aiutare a smettere di procrastinare
1. Fai chiarezza
Spesso avere in mente i compiti da portare a termine può non bastare e creare confusione.
Un buon modo di fare chiarezza è quello di mettere nero su bianco ciò che devi fare: fai una lista dei tuoi doveri annotando anche entro quando li devi compiere.
Mano a mano che li porti a termine, cancellali dalla lista; questo ti aiuterà a vedere i tuoi successi e aumenterà la motivazione e il senso di autoefficacia (Tracy, 2008)
2. Priorizza
Non c’è da illudersi: se pensi di cominciare a dedicarti alle tue scadenze a lungo termine “non appena avrai finito di dedicarti a tutto il resto” non comincerai mai.
Le cose da fare saranno sempre più del tempo a disposizione per farle, quindi la prima chiave è priorizzare.
Nella tua “to do list” identifica le attività molto importanti, quelle mediamente importanti, quelle carine da fare ma non necessarie, quelle delegabili e infine quelle eliminabili. Parti dalle prime e via via prosegui verso le successive.
3. Un passo alla volta
Limita l’investimento che stai chiedendo a te stesso, cominciando a piccoli passi. La guru dell’economia domestica Marla Cilley suggerisce questo semplice metodo per affrontare compiti spiacevoli, come pulire casa: imposta un timer a 5 minuti e datti al riordino finché non suona.
Non sembra pesante, giusto?
Certo, in 5 minuti non riuscirai a pulire tutta casa, ma avrai dato inizio al cambiamento! E cominciare è molto più difficile che continuare.
Questo metodo può essere utilizzato in tutte le attività che fatichi ad intraprendere. (Heat, 2010)
4. Prepara l’ambiente
Sarà più difficile procrastinare se avrai tutto ciò che ti serve a tua disposizione.
Prepara la tua postazione con il necessario per portare a compimento i tuoi doveri, senza la necessità di alzarti per prendere materiale mancante.
Cerca di creare il tuo spazio di lavoro in modo che sia confortevole ma anche attrattivo, che ti invogli a lavorarci.
5. Agganciati ad azioni che farai con certezza
Lo psicologo Gollwitzer le chiama “action-trigger” (in italiano, letteralmente “azioni-innesco”): sono eventi che sicuramente avverranno, in seguito alle quali viene suggerito di immaginare un compito che tendi a procrastinare.
Facciamo un esempio: continui a rimandare l’iscrizione in palestra. Potresti dirti “domattina, dopo che ho portato fuori il cane, mi iscriverò in palestra”.
L’azione “portare fuori il cane” è certa e domattina ti farà da innesco per iscriverti in palestra.
Attenzione, però: questo non significa che semplicemente immaginare di fare un’azione ti porterà sicuramente a farla. Devi essere anche motivato.
Se questi consigli non dovessero bastare, puoi pensare di rivolgerti ad uno specialista. Sul sito www.onesession.it puoi trovare un elenco di professionisti formati in Terapia a Seduta Singola che possono aiutarti a raggiungere i risultati sperati!
Bibliografia:
Heat & Heat (2010), Switch, How to Change Things when Change is Hard
Tracy (2008), Eat that frog, 21 Great Ways to Stop Procrastinating and Get More Done in Less Time
Dewitte S., Schouwenburg H.C., (2002), Procrastination, Temptations, and Incentives:The Struggle between the Present and the Future in Procrastinators and the Punctual, European Journal of personality, 16: 469-489
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.

Sbagliare è umano, perseverare…pure!
Il fallimento non è sinonimo di insuccesso ma di realizzazione personale
Ti sei mai sentito un buono a nulla?
Ogni persona, una volta nella vita, si è trovata nella condizione di dover fare i conti con il fallimento: che sia stato un brutto voto a scuola, un colloquio di lavoro andato male, una relazione finita, ognuno di noi ha avuto a che fare con l’errore, lo sbaglio, la terribile sensazione di aver, appunto, fallito.
Gli errori costituiscono una condizione ineluttabile dell’essere umano, eppure un gran numero di persone ha paura di sbagliare, è terrorizzata dalla possibilità di commettere errori e si trova paralizzata di fronte alle scelte importanti della vita.
Tenderà quindi a non agire o a procrastinare per un tempo che diventerà infinito.
Sbagliando, s’impara?
Thomas Edison, riferendosi alla sua invenzione della lampadina, disse:
“Io non ho fallito duemila volte nel fare una lampadina; semplicemente ho trovato millenovecento-novantanove modi su come non va fatta una lampadina”
Sbagliare significa tentare, provare, mettersi in gioco. Fallire aiuta a crescere.
Gli errori non costituiscono una condanna ma sono sintomo di un evoluzione in corso, di una crescita personale.
Nonostante sia una sensazione sgradevole, combatterla potrebbe rivelarsi controproducente poiché provoca l’immobilità e spesso non si valuta che non agendo si perde più di quanto si potrebbe guadagnare agendo.
Negli anni 50, lo psicologo Thorndike, studiò l’ apprendimento “per prove ed errori”, dimostrando come il fallimento fosse utile proprio per apprendere, in quanto permetteva – ad ogni nuovo tentativo – di rivalutare le scelte, ricalibrare le risorse, cambiare direzione e soprattutto spingere ad agire, agire, agire!
Sbagliando quindi, s’impara eccome. Il fallimento è da considerarsi un diritto di cui nessuno deve essere privato; consente infatti di acquisire consapevolezza di se e delle proprie risorse, guidandoti verso la strada più adatta a noi.
E’ un utile strategia per renderti conto se la facoltà che hai scelto non va bene, quali sono le tue attitudini, quale tipo di lavoro preferisci…e cosi via. Al contempo ti costringe a rialzarti e a riprovare nuovamente, aggiustando il tiro per migliorare.
Come reagisci di fronte al fallimento?
Ecco alcune possibilità:
- Ipergeneralizzare: l’errore diventa totalizzante e ti costringe a pensare che sei un fallimento totale, sei tu l’errore. Non è cosi. Ridimensiona/normalizza il fatto che l’errore appartenga a un SOLO aspetto della tua vita e che quindi hai numerose altre risorse su cui contare.
- Indecisione: Non sai scegliere. Di fronte a una scelta, piuttosto che sbagliare preferisci non muoverti, rimanere in disparte, prolungare l’attesa. Che succede? Che niente di quello che volevi si realizza.
- Procrastinare: rimandi, rimandi, rimandi sempre. Più l’errore ti viene incontro e più tu lo scansi. Il tempo è tuo alleato perché preferisci rimandare, darti scadenze che mai rispetterai piuttosto che affrontare l’errore.
Alla ricerca della perfezione…
Temi lo sbaglio al tal punto che lo previeni , anelando alla perfezione della tua performance? Se sarai perfetto, non ci sarà possibilità di errore, no? Sarà solo la tua ansia a cresce irrimediabilmente ad ogni prova.
Anche il tuo cervello reagisce agli sbagli; forse non lo sapevi, ma il cervello è in grado di adattarsi all’errore: possiede meccanismi di correzione e rivelazione degli errori che plasmano l’attività cerebrale e gli consentono di imparare.
Potresti dunque provocargli un danno sottraendoti allo sbaglio perché bloccheresti i naturali processi di apprendimento.
Qualora sottrarsi al timore dell’errore fosse più difficile del previsto, puoi sempre rivolgerti a un professionista, uno psicologo qualificato.
Sul sito www.onesession.it, per esempio, è presente un elenco di professionisti formati in Terapia a Seduta Singola che potranno aiutarti a raggiungere i risultati sperati, anche in un singolo incontro; ebbene sì, anche una sola seduta con il terapeuta potrebbe apportare benefici, individuare le tue risorse e aiutarti a priorizzare l’obiettivo da raggiungere.
Bibliografia
Cannistrà F., Piccirilli F. (2018), Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Giunti Psychometrics
Fanget F. (2018). Gli errori che aiutano a crescere. Mind, Mente & Cervello, 157, p. 24-33.
Procyk E., Meunier M. (2018), L’errore plasma il cervello, Mind, Mente & Cervello, 157, p. 36-43.
Sono una psicologa che si occupa di consulenze brevi e di TSS: il mio obiettivo è ridurre i tempi della terapia e massimizzare l’efficacia della seduta, offrendo un sostegno focalizzato e concreto per affrontare sia le piccole che le grandi difficoltà della vita

Paura del fallimento: ciò che non mi uccide, mi fortifica?
E’ tutto pronto per la partenza. Sei in prima fila e potrebbe essere la gara della tua vita: qualora riuscissi a vincerla, ti consacreresti campione del mondo. I semafori si accendono, manca poco al via, ma all’improvviso sei assalito dai dubbi: “E se non riuscissi a portare a termine la gara? e se non arrivassi primo? quale tremenda delusione sarà! No, no, meglio rinunciare e non partire, piuttosto che correre il rischio di perdere!”. E così, alla fine rimani fermo sulla griglia di partenza, senza nemmeno partecipare a quella che poteva essere davvero la gara della tua vita.
Quello che ti ho appena descritto ha un nome: paura del fallimento. E’ un tipo di paura che attanaglia la mente, la blocca e la immobilizza di fronte a qualsiasi prova dell’esistenza.
So già che non raggiungerò l’obiettivo
La paura del fallimento è quel pensiero debilitante e ricorrente che subentra in tutti coloro che hanno paura di non riuscire a realizzare qualcosa. La persona interessata, per il solo timore di fallire, interrompe qualsiasi azione sia destinata al raggiungimento dei propri obiettivi. La paura di non riuscire è così tanta, che alcune volte finisce persino per non provarci nemmeno!
La paura di fallire implica importanti stravolgimenti dal punto di vista psicologico. Oltre all’immobilizzazione nei confronti della vita e delle scelte che si operano, crea dentro la persona un profondo senso di sfiducia. Quest’ultimo, a lungo andare, determinerà una considerevole disistima nelle proprie capacità, un giudizio negativo di sé e una profonda sensazione di disfatta di fronte a qualsiasi scelta ci sarà da compiere.
Ci sono alcuni precisi sintomi della paura del fallimento tra cui, oltre la bassa autostima e fiducia (“Non sarò mai capace di superare questo esame”), il rifiuto categorico a provare esperienze nuove, il procrastinare e la tendenza al perfezionismo (“Non riuscirò mai a fare quella cosa come vorrei, per cui non ci provo nemmeno”).
Con queste caratteristiche, il circolo vizioso della paura di fallire inibirà la persona in ogni campo della vita, da quello lavorativo a quello sociale. Piuttosto che dare adito a nuovi progetti, ci si accontenterà di quel che si ha, perché un eventuale fallimento della novità sarebbe una delusione troppo grande da dover digerire.
Le possibili cause: mancanza di fiducia
E’ difficile conoscere con esattezza quali possano essere, in generale, le cause della paura di fallire.
Dall’esperienza clinica se ne possono ricavare alcune più frequenti. Partendo dall’esperienza più precoce, una delle possibili è l’aver avuto genitori critici e poco supportivi.
I genitori critici non supportano né incoraggiano il proprio figlio nel raggiungimento degli obiettivi (qualunque essi siano, dal più semplice al più complesso). Ciò vuol dire che, spesso, si sostituiscono a lui nelle scelte, lo umiliano in pubblico (anche solo verbalmente) e non riconoscono né apprezzano i traguardi da lui raggiunti. Questo comportamento genitoriale, messo in atto spesso in modo inconsapevole, crea nel bambino un sentimento negativo, di sfiducia e di scarsa autostima nelle proprie capacità. Sensazioni che lui si porterà dietro anche da adulto, il ché, nel migliore dei casi, alimenterà la vera e propria paura del fallimento.
Un’altra possibile causa del timore di fallire è l’aver vissuto un evento traumatico.
Con evento traumatico si intende un’esperienza particolarmente dolorosa o umiliante che ha segnato la nostra vita. Un’esperienza traumatica, nell’ambito del fallimento, potrebbe essere, ad esempio, l’aver fatto una pessima figura in pubblico, durante una presentazione, oppure l’aver ricevuto un’importante umiliazione durante una prestazione sportiva.
La persona, scottata dalle emozioni negative vissute, sarà portata a evitare qualsiasi situazione che le ricorderà quella originaria, pur di non rischiare di riprovare le stesse sensazioni negative.
Fallimento: ciò che non mi uccide, mi fortifica!
Qualunque sia la tua storia personale, a tutto c’è un rimedio! Devi solo provare a vedere il fallimento in maniera non del tutto negativa, ma come un’occasione di crescita e di apprendimento. Vedendolo sotto questa prospettiva, esso potrà farti meno timore.
La paura di fallire, infatti, fa parte della vita di tutti: chiunque si è confrontato con una qualche forma di fallimento, prima di arrivare alla vita adulta. Vuoi per un amore non corrisposto, vuoi per un lavoro andato male o per una semplice amicizia interrotta. Il fallimento è, in fin dei conti, un modo per imparare dall’esperienza, per fortificarci e diventare adulti più sani e coraggiosi. Rinunciare a priori è, invece, indice di malessere.
Per alleviare la tua paura di fallire, quando hai di fronte un obiettivo che vuoi raggiungere, prima di rinunciare del tutto ai tuoi propositi, prova a seguire questi semplici consigli.
Innanzitutto, cambia il tuo punto di vista sul fallimento, come sopra ti ho suggerito di fare. In seguito, analizza tutte le conseguenze possibili che la tua azione potrà avere (a volte è la paura dell’ignoto che fa più timore, piuttosto che il fallimento in sé). Impara quindi a pensare positivo e datti fiducia, magari prefigurandoti lo scenario peggiore di quello che potrà succedere (ti aiuterà ad essere più ottimista!). E infine, fai e impegnati in quello che volevi fare!
Ricorda che la paura del fallimento viene meno solo con l’esperienza. Se reputi, invece, che, nel tuo caso, il timore di fallire sia ben più radicato, affidati a un terapeuta a sessione singola: in una sola seduta potrà cambiare il tuo modo di vedere le cose, nonché sbloccare e inibire molte delle tue paure, per iniziare, così, a non aver più paura!
Bibliografia
Morschitzky, H. (2013). Vincere la paura del fallimento. Superare ansie, timori e sconfitte per tornare a guardare al futuro, Apogeo, Adria.

Il mio corpo che cambia
Durante la vita c’è un periodo in cui avvengono repentine trasformazioni dal punto di vista fisico, sociale e psicologico. E’ un periodo che tutti noi attraversiamo, perché vuol dire crescere. Potremmo paragonarlo a un ponte a senso unico che collega tra loro due isole: l’infanzia e la vita adulta. All’età di circa 10-13 anni, infatti, abbandoniamo l’infanzia per approdare, dopo una decina d’anni, alla vita adulta. Questo “ponte” prende il nome di adolescenza.
Quando mi accorgo che il mio corpo sta cambiando: la pubertà
La strada che percorriamo su questo ponte, possiamo immaginarla come formata da tre corsie. Una prima corsia rappresenta tutti i cambiamenti psicologici cui si va incontro, la seconda i cambiamenti sociali, infine la terza i cambiamenti somatici. Se ci riferiamo soltanto ai cambiamenti fisici che intervengono durante l’intera adolescenza, allora la definiremo col termine di pubertà.
Sia per i maschi che per le femmine, la pubertà rappresenta quel momento che va dalla comparsa dei primi caratteri sessuali, fino alla loro completa maturazione. In altre parole, alla fine di questo lasso di tempo, le femmine diventeranno donne, e i maschi uomini.
In rari casi, la pubertà può iniziare anche prima dei 10 anni o, diversamente, avviarsi dopo i 13 anni. In queste circostanze si parla di pubertà anticipata o ritardata, cosa che potrà rinviare a disturbi psicofisiologici di differente natura.
Diventare donna
Per le femmine, l’inizio della pubertà coincide spesso con un graduale aumento dell’altezza di 15-20 cm, che al contempo comporta altri cambiamenti corporei. I più evidenti sono l’ingrandimento del seno, nonché la comparsa di peli nel pube e nelle ascelle. Il corpo, inoltre, tenderà ad allargarsi sui glutei, sui fianchi e sulle cosce. Si attiveranno anche le ghiandole sudoripare (quelle che fanno sudare).
La prima mestruazione (menarca) rappresenterà il vero e proprio addio all’infanzia. Hai presente il ponte di cui ti parlavo prima? Ecco, al momento della prima mestruazione, è come se le ragazze si trovassero già a metà di quel percorso che le condurrà all’età adulta. Almeno dal punto di vista fisico, da quel momento in poi, non sarà per loro più possibile tornare indietro.
In termini scientifici, infatti, la prima mestruazione rappresenta la maturazione del sistema nervoso e ormonale del cervello, nonché dei collegamenti nervosi tra utero e ovaie. La ragazza si sta preparando cioè a diventare a tutti gli effetti una donna, capace di riprodursi e dare al mondo, in futuro, anche dei figli. Il vero motivo di tutti i cambiamenti fisici puberali, d’altronde, è proprio la maturazione del proprio apparato sessuale e riproduttivo.
Diventare uomini
Contrariamente alle femmine, nei maschi l’inizio della pubertà non coincide spesso con un aumento della statura, che pur si verifica. La vera e propria pubertà, invece, inizia nel ragazzo soltanto due anni più tardi rispetto alla crescita in altezza. I futuri uomini avvertono un ingrandimento di tuttol’organo riproduttivo (il pene) e al contempo la comparsa dei peli nelle zone intime, sotto le ascelle o in faccia (barba e baffi).
Maggiormente rispetto alle donne, vi è un aumento della massa muscolare e scheletrica, un cambiamento nel tono della voce (che si fa più basso), nonché la comparsa di acne sul volto (i fastidiosissimi brufoli!). Così come avviene per le donne con la prima mestruazione, anche i ragazzi maturano internamente il proprio sistema ormonale e riproduttivo. In questo periodo, infatti, i maschi aumenteranno la produzione di spermatozoi (la cellula riproduttiva maschile).
Quando un ragazzo non vuole diventare adulto
I cambiamenti fisici in adolescenza sono molti e intensi. Spesso, però, capita che il ragazzo, o la ragazza, non si riconosca nelle mutazioni somatiche cui va incontro. In un certo senso, accade che “non vuole” diventare grande. Hai presente Peter Pan, che non voleva crescere? Ecco, avviene più o meno la stessa cosa. Ma se da un punto di vista psicologico il ragazzo non desidera crescere, da un punto di vista fisico il corpo lo fa ugualmente (i due processi sono, infatti, distinti). L’immagine mentale infantile che il ragazzo ha di sé, a quel punto, non coinciderà più con quella fisica, che continuerà comunque a svilupparsi. L’adolescente stenterà, di conseguenza, a riconoscersi nella propria immagine corporea, dando vita a svariati problemi psicologici (in genere transitori).
Potrà capitare, ad esempio, che si vedrà troppo magro, e quindi inizierà a mangiare fino a diventare obeso. O, al contrario, una ragazza si vedrà grossa, decidendo per questo di non mangiare più, al punto da diventare anoressica. Oppure ancora, un adolescente, se non riuscirà ad adattarsi ai cambiamenti somatici, potrà muoversi in modo goffo, non si piacerà, potrà addirittura ritirarsi da un punto di vista sociale e psicologico.
Quando vi è una discrepanza tra l’immagine corporea e quella mentale, allora è probabile che un aiuto psicologico può essere utile. Non preoccuparti! In genere non si tratta di lunghe terapie, ma brevi; a volte basta anche una seduta singola per risolvere la problematica.
In questi casi, infatti, spesso è necessario un semplice sostegno psicologico, ma che sia capace di aiutarti a unire l’immagine mentale che hai di te stesso, con quella che il tuo corpo sta sviluppando. E dunque arrivare alla fine di quel ponte (la vita adulta), senza rischiare di sbagliare strada.
Bibliografia consigliata
Palmonari, A. (2011). Psicologia dell’adolescenza, Il Mulino, Bologna.
Perkins, R. (2006). The effectiveness of one session of therapy using a single-session therapy approach for children and adolescents with mental health problems, The British Psychological Society, Psychology and Psychotherapy: Theory, Research and Practice,79.
Talmon, M. (1990). Psicoterapia a seduta singola, Erickson, Milano.

Dismorfobia: la convinzione di essere brutti!
Immagina di svegliarti e, come ogni mattina, di guardarti allo specchio. Nel momento in cui osservi il tuo riflesso, però, ti accorgi all’improvviso di quanti difetti esso abbia. Il tuo naso, i tuoi capelli, le orecchie, ti sembra che abbiano un aspetto orrendo. E ogni giorno che passa, ti convinci sempre più della bruttezza del tuo corpo, al punto da non sentirti più attraente.
Che cosa sta accadendo? Si chiama dismorfofobia.
“Sono brutto, sono brutto, sono brutto!”
La dismorfofobia, o disturbo di dimorfismo corporeo, è un’intensa preoccupazione per un ipotetico difetto fisico, che conduce alla convinzione o al timore di essere brutti e inattraenti agli occhi degli altri. Questo seppure, nella maggior parte dei casi, l’aspetto fisico della persona dismorfofobica non è cambiato, ma al contrario è rimasto lo stesso. Vi sono alcune zone del corpo che, in genere, sono più soggette alla dismorfofobia, quali le parti del viso (naso, capelli, occhi, orecchie, labbra), forse perché più esposte all’esterno rispetto ad altre. Non vengono tuttavia lasciate da parte nemmeno il seno o i glutei, in quanto importanti per l’attrazione sessuale.
Più in particolare, la dismorfofobia può essere definita come un’idea distorta del proprio corpo che si radica nella mente della persona, cui il soggetto pensa in maniera ossessiva e involontaria. Questa idea, alla fine, sarà talmente ripetitiva che si tradurrà in una vera e propria concezione alterata della propria immagine corporea.
Per spiegarti bene come si innesta tale idea, ti faccio un esempio. Pensa a quando ti alzi la mattina e, senza sapere perché, inizi a ripeterti in testa il ritornello di una canzone in maniera ininterrotta. Supponi adesso che anziché il ritornello di quella canzone, tu ti ripeta assiduamente “sono brutto, sono brutto, sono brutto!”, al punto da convincertene. Proprio come il ritornello della canzone, questa idea ti accompagnerà per tutto il giorno e anche per i giorni a venire. Ti puoi già rendere conto di quanto difficile possa essere vivere con un’idea di questo tipo, eppure è proprio quello che accade nella dismorfofobia.
L’interminabile ricerca del difetto fisico
Come ogni disturbo psicologico, anche la dismorfofobia ha vari livelli di gravità, specialmente nell’adulto. Si parte da una semplice preoccupazionefisica per una determinata parte del corpo, fino ad arrivare a un vero e proprio atteggiamento delirante. La convinzione distorta della propria immagine corporea può essere transitoria, o permanente; oltretutto, la persona può esserne consapevole o meno.
Puoi accorgerti di essere in presenza di una persona dismorfofobica quando la vedi continuamente specchiarsi, oppure evitare accuratamente di vedere la propria immagine corporea riflessa. In genere è un individuo che evita il contatto con gli altri perché ha il timore di essere giudicato. Capita spesso, inoltre, che queste persone, pur di aggiustare il loro difetto fisico, eseguano ripetuti interventi di chirurgia plastica. Dopo ogni intervento, però, anziché migliorare l’atteggiamento verso il proprio corpo, lo peggiorano, al punto che seguono altri interventi per sperare di rimediare al danno fatto. Si innescherà, di lì in poi, un circolo vizioso senza fine, volto a modificare continuamente il corpo, tipico di un atteggiamento dismorfofobico.
Attenzione, però, stiamo parlando di atteggiamenti che si ripetono ogni giorno, in maniera continua, al punto da influenzare negativamente la normale vita quotidiana. In altre parole, non è dismorfofobico chi ricorre a operazioni chirurgiche per reali difetti fisici, o chi si guarda più volte allo specchio la mattina, prima di andare a lavoro!
E nell’adolescenza?
Negli adolescenti la preoccupazione per il corpo è già di per sé piuttosto elevata, motivo per cui compare spesso un disturbo di dismorfofobia, in particolare nel sesso femminile. Nell’adolescenza, d’altronde, il corpo è un mezzo di comunicazione, di attrazione verso gli altri, rappresenta il vero e proprio cambiamento verso l’età adulta.
In questi casi, la dismorfofobia è in genere transitoria. L’atteggiamento dismorfofobico, infatti, scomparirà quando, col l’avvicinarsi della vita adulta, l’immagine che si avrà di sé stessi coinciderà completamente con quella del corpo. Se questa integrazione armonica non avverrà, probabilmente il corpo diverrà un estraneo e il disturbo dismorfofobico evolverà in una vera e propria patologia.
Ritornare a sentirsi belli
Se c’è un disturbo dismorfofobico conclamato, almeno nei caratteri essenziali di cui ho parlato in questo articolo, una soluzione c’è. Una delle tecniche più efficaci è stata messa a punto da Nardone, e si pone come obiettivo quello di smontare gradualmente le convinzioni di queste persone, per rendere vane le idee dismorfofobiche.
Il terapeuta, dopo aver compreso le cause che hanno portato al disturbo, attraverso una serie di manovre ad hoc, inviterà il paziente a una graduale riesposizione alle situazioni sociali e alla propria immagine corporea. Così facendo, permetterà di aggiustare la sua percezione distorta favorendo, al contempo, il recupero di una relazione positiva sia col proprio corpo che con gli altri.
Per problematiche più lievi e transitorie, inoltre, come suggeriscono Ollendick e Davis, una sessione di terapia a seduta singola, potrebbe già avere importanti benefici.
Bibliografia consigliata
Nardone, G., Salvini, A. (2004). Il dialogo strategico. Comunicare persuadendo: tecniche evolute per il cambiamento, Ponte alle Grazie, Firenze.
Nardone, G. (1993). Paura, panico, fobie, Ponte alle Grazie, Firenze.
Ollendick, T.H., Davis, T.E. (2013). One-session treatment for specific phobias: a review of Ost’s single-session exposure with children and adolescent, Cogn. Behav. Ther, 42 (4), 275-283.
Talmon, M., (1990). Psicoterapia a Seduta Singola. Trento: Centro Studi Erickson, 1996.

Crisi adolescenziale: diventare adulti (o quasi)
Supponi di avere tra le mani un elastico e di tenderlo con l’una e l’altra mano sia verso destra che verso sinistra. L’elastico si dilaterà in relazione alla forza con cui lo tirerai da entrambe le parti, ma se continuerai a farlo all’infinito e a non rispettare il suo punto di equilibrio, dopo un po’ si deformerà.
E’ quello che capita agli adolescenti: essi vengono attratti da una parte dall’infanzia, che devono necessariamente abbandonare, e dall’altra dalla nuova vita adulta, cui si dovranno conformare. Lasciare l’infanzia per andare incontro all’adultità non è però semplice: vorrebbe dire abbandonare il proprio nucleo familiare, le sicurezze fino ad allora costruite e dirigersi verso una nuova forma di identità (Erickson, 1959), percorso che alcuni definiscono col termine di “individuazione” (Mahler et al., 1975; Mahler, 1968). Con “crisi adolescenziale” si intende proprio questo processo, ovvero un intenso periodo di passaggio, di cambiamento e di ricerca di stabilità interna ed esterna (Erickson, 1959; Ammaniti, 2002).
L’adolescenza
Tutta l’adolescenza, d’altronde, è il lasso di tempo durante il quale un ragazzo sperimenta, conosce e cerca di comprendere nuove situazioni sociali, psicologiche e fisiche. In altre parole, è il periodo in cui tutti i nodi del passato vengono al pettine, e si cerca di risolverli prima di entrare a far parte della vita adulta. La crisi si presenta, quindi, come la logica e necessaria conseguenza del tentativo di crescere e diventare autonomi (Ammaniti, 2002).
Pertanto, se sei un adolescente (o un genitore), non devi preoccuparti più di tanto se talvolta piangi, ti senti solo, triste, litighi con tua madre o tuo padre, poiché sono tutti elementi che fanno parte del normale processo di sviluppo che qualunque persona prima o poi deve affrontare. Per usare le parole di Winnicott: “L’adolescente è immaturo, ma l’immaturità è un elemento essenziale della sanità nell’adolescente” (1971).
Tipici comportamenti adolescenziali sono il rifugiarsi nel gruppo di amici, esplorare nuove emozioni con l’altro sesso o addirittura scontrarsi con i genitori, i quali spesso vorrebbero non vederti crescere, ma rimanere bambino (e allora tu, adolescente, faresti bene a seccarti con loro: il tuo obiettivo è quello di diventare un adulto, e non di rimanere un bambino! Altro che crisi: è un dovere farlo!). Sono tutte cose che fanno parte di questo particolare e complesso periodo di “crisi” dell’esistenza che, te lo ripeto, è auspicabile che si presenti in tutti i ragazzi.
E’ il caso di preoccuparsi?
Non sempre ma possiamo osservare alcune cose come, ad esempio, quando i tratti e i comportamenti diventano piuttosto marcati ed eccessivi: la tristezza, così, può sfociare nella depressione, oppure una delusione d’amore può far nascere desideri autolesionistici (Ammaniti, 2002). Una crisi “normale”, infatti, verrà superata più o meno naturalmente col passare del tempo, cosa che permetterà al ragazzo di diventare un adulto in maniera adattiva.
In una crisi complicata, invece, l’elastico non solo si deformerà, ma rischierà pure di rompersi: l’adolescente sarà incapace sia di abbandonare la propria infanzia che di accettare la vita adulta, rimanendo così in un limbo tra i due poli o rinchiuso all’interno di uno di essi. E’ il caso, ad esempio, di tutti quei ragazzi che commettono furti, fanno uso di sostanze, mettono in atto comportamenti violenti o, al contrario, si ritirano in sé stessi, diventano asociali oppure eccessivamente timidi (Jeammet, 1992; Ammaniti, 2002). E’ evidente che qualcosa, in queste circostanze, è andato storto: l’adolescente andrebbe aiutato a riprendere la giusta via di crescita,interrotta da un qualche fattore interno o esterno (un lutto? la perdita di una persona cara? un trauma?).
Come? Bè, non c’è una sola strada da percorrere.
L’adolescenza ha un’enormità di sfaccettature psicosociali che, oltre al ragazzo, includono la famiglia e la scuola. Se rimaniamo però nell’alveo psicoterapeutico, l’obiettivo è di condurre l’adolescente a una più matura identità di sé (Erickson, 1959; Senise, 2014). Si parla in certi casi di “terapia breve d’individuazione”, durante la quale l’adolescente viene portato, in poche sedute, a investire sulle proprie emozioni, sui propri affetti, nonché a sollevare dubbi e mettere in atto un pensiero e un esame di realtà più funzionale (Senise, 2014).
Lo stesso intervento si potrebbe fare nei confronti dei genitori (psicoterapia sistemica). In definitiva, si tratta di sperimentare fino a quando “quell’elastico”può essere teso, con quali modi e quale forza, fino al raggiungimento di un punto d’equilibrio ideale. Il chè corrisponderebbe con la tanto agognata entrata a far parte della vita adulta.
Bibliografia
Ammaniti, M. (2002). Manuale di psicopatologia dell’adolescenza, Raffaello Cortina, Milano.
Erickson, E.H. (1959). Identity and the life cycle, Psychological Issues, International Universities Press, New York.
Mahler, M.S., Pine, F., Bergman, A. (1975). La nascita psicologica del bambino, Boringhieri, Torino.
Jeammet, P. (1992). Psicopatologia dell’adolescenza, Borla, Roma.
Senise, T. (2014). Psicoterapia breve d’individuazione, Mimesis, Milano.
Winnicott, D.W. (1971). Gioco e realtà, Armando, Roma.

La necessità di farsi del male: l’autolesionismo
Sarà capitato qualche volta anche a te di tagliarti o farti del male in maniera accidentale, nonché di provare dolore per il male che ti eri procurato. Non è di certo una bella esperienza: eppure c’è chi quel dolore se lo procura volontariamente. In alcune persone, infatti, vi è l’improrogabile necessità di rivolgere contro di sé azioni aggressive.
So che sembra strano, ma per qualche complessa dinamica psicologica interna, le persone che mettono in atto tali comportamenti autolesionistici non riescono a trattenersi dal bisogno di farsi del male, ma anzi si nutrono della sofferenza che si autoinfliggono. A volte lo fanno per sentire del piacere, altre volte per reprimere una rabbia o un’emozione che non è possibile esprimere verso l’esterno (Brain et al., 1998; Vanderhoff & Lynn, 2001).
L’autolesionismo: di cosa parliamo?
L’autolesionismo, però, è un comportamento patologico solo se fatto in maniera volontaria e consapevole. Per capirci: se accidentalmente ti rovesci addosso una pentola di olio caldo, quello non è autolesionismo, bensì sbadataggine! Se lo fai di proposito, invece, allora sì che è una condotta autolesionistica.
I più colpiti sono gli adolescenti, a partire dall’età di circa 11-15 anni. Molto spesso se la problematica non si risolve nel breve periodo, può evolvere in condotte autolesionistiche adulte più gravi. Seguendo l’approccio della psicoterapia breve, ne distinguiamo tre forme principali (Favaro et al., 2004):
- autolesionismo leggero, con ferite di lieve entità più o meno visibili (taglietti piccoli in varie zone del corpo, lividi, piccole bruciature…);
- autolesionismo grave, ovvero il procurarsi ferite permanenti, come cicatrici profonde, o addirittura amputazioni di arti;
- autolesionismo di altro tipo, come i disturbi alimentari (Nardone & Selkman, 2011).
Se stai pensando che questi comportamenti possano avere come obiettivo il suicidio, ti sbagli, perchè il fine ultimo di queste condotte adolescenziali non è di tipo suicidario, bensì solo quello di sentire dolore (Brain et al., 1998). Pensare alla filosofia degli Emo può forse aiutarti a comprendere meglio l’enfasi che nell’autolesionismo ha il ruolo della sofferenza come espressione di un più profondo disagio interno.
Sono certo che ti fa un po’ impressione sapere che al mondo esistono adolescenti che volontariamente si procurano tagli alle braccia o ai seni, o ancora bruciature su tutto il corpo. Forse te ne farà un po’ meno se ti mostrerò le cause psicologiche che sono alla base di questo tipo di comportamenti.
L’autolesionismo può essere causato da un forte stress post-traumatico, di fronte al quale il soggetto avverte la necessità di punirsi per qualche colpa che sente di aver commesso. Oppure da una profonda insicurezza interiore o, altresì, da un’incapacità di gestire le emozioni che, quindi, vengono “tradotte” in azioni autolesionistiche. Non è peraltro un caso che gli episodi più frequenti di autolesionismo si originino proprio durante l’adolescenza. Questo, infatti, è un periodo di profondi cambiamenti, dove il ragazzo vive le prime esperienze d’amore, sperimenta significativi mutamenti fisici e psicologici, e se non è capace di gestire e adattarsi a queste trasformazioni, molto spesso mette in atto comportamenti patologici. Tagliarsi, allora, si configurerà come un modo per alleviare l’ansia e l’incapacità di accettarsi per quel che si è (Brain et al., 1998).
In sintesi, mantenendo il punto di vista psicoterapeutico di tipo breve, l’autolesionismo viene generalmente inteso come atto sedativo, autoregolatore o di piacere, necessario per ridurre un dolore emotivo interno.
Cosa fare?
E se sei tu a essere vittima delle tue condotte autolesive? O magari tuo figlio, o un tuo amico? Vediamo assieme cosa puoi fare.
Il primo passo da realizzare, ma se stai leggendo questo articolo molto probabilmente lo hai già fatto, è quello di ammettere di esserne affetti. In seguito, chiedere aiuto agli altri è il secondo.
La psicoterapia di gruppo può aiutare a condividere il disagio e a sentirsi meno soli, così come altre forme di psicoterapia individuale possono aiutare a scoprire quali solo le cause sottostanti all’autolesionismo. Ma se non vuoi imbarcarti in percorsi terapeutici lunghi e costosi, non temere: il più delle volte, specie nelle forme di autolesionismo leggero, non è indispensabile fare molte sedute psicoterapeutiche per ottenere buoni risultati, poiché il tutto si può risolvere anche in breve tempo (Hoyt & Talmon, 2014).
Soprattutto negli ultimi anni, molti approcci teorici si rifanno al concetto di psicoterapia breve o terapia a seduta singola per aiutare un adolescente (ma non solo) a fuoriuscire da una problematica di autolesionismo (Talmon, 1990; Talmon, 1993). In questi casi si agisce su di un focus specifico e ben delineato: se l’atto autolesivo è espressione del dolore interno, si aiuta fin da subito la persona a saperlo esprimere e gestire in maniera corretta(Hoyt & Talmon, 2014). I cambiamenti che sopravverranno già a seguito della prima seduta permetteranno al paziente di sviluppare gradualmente delle emozioni più sane e ritrovare piaceri più adattivi.
La psicoterapia breve, in definitiva, non fa altro che tracciare, in poche sedute, la strada da seguire: il restante processo di guarigione farà leva sulle risorse interne della persona che vuole ridurre la sofferenza connessa alle sue condotte autolesionistiche.
Bibliografia
Brain, K. L., Haines, J. and Williams, C. L. (1998). The psychophysiology of self-mutilation: evidence of tension reduction, Archives of Suicide Research, Vol. 4.
Favaro, A., Ferrara, S., Santonastaso, P. (2004). Impulsive and compulsive self-injurious behavior and eating disorders, in Levit, J.L. et al., Self-harm behavior and eating disorders, Brunner/Routledge, New York.
Hoyt, M. F., Talmon, M. (2014). Capturing the Moment, Crown Hous, Bancyfelin, UK.
Nardone, G., Selekman, M. (2011). Uscire dalla trappola. Abbuffarsi vomitare torturarsi: la terapia in tempi brevi, Ponte alle Grazie, Milano.
Talmon, M. (1990). Single-Session Therapy. Jossey Bass, San Francisco.
Talmon, M. (1993). Single Session Solutions, Addison-Wesley, Reading, MA.
Vanderhoff, H.A., Lynn, S.J. (2001). The assessment of Self Mutilation, Journal of Threat Assessment, Vol. 1 (1).
Sitografia